L’agenda delle cose da fare

Vincenzo Moretti

Proverei a collegarmi subito con l’ultima cosa che diceva De Giovanni.

Le esigenze parallele
L’Italia, come del resto tutti i paesi europei, ha l’esigenza di risanare la propria economia, anche in relazione agli impegni europei di cui abbiamo ampiamente parlato, e contemporaneamente di avere delle politiche sociali positive.
Come tenere insieme il bisogno di risanamento e l’esigenza di mantenere politiche sociali che consentano di rispettare i parametri di Maastricht senza una caduta dei livelli di democrazia, di sviluppo, di civiltà? Mi sembra questo il punto.

Le modifiche costituzionali
Ciò pone, a propria volta, questioni che riguardano questa fase di transizione, il come da questa transizione si esce e se e in che forme se ne esce dal versante delle modifiche istituzionali e costituzionali.

Il programma
E questioni che riguardano il programma, l’agenda delle cose da fare.
Personalmente proverei a dare a questa idea del programma un significato ed un carattere estensivo.
Forse per troppo tempo siamo stati prigionieri di uno schema che si riferiva o a ideali, valori, idee tanto grandi da essere per definizione poco realizzabili, o a un pragmatismo spicciolo, scollegato da ogni progettualità.
Credo sia bene lasciarsi alle spalle entrambe le impostazioni.
Definire un programma deve significare ragionare di idee forza, di come queste idee forza si traducono in scelte concrete di tipo economico, istituzionale o costituzionale, che, nella loro parzialità, abbiano alle spalle una chiara impostazione e siano in qualche modo in grado di parlare a tutto un Paese.
E’ quanto sta tentando di fare Tony Blair in Inghilterra.

Alcuni esempi possibili
Il livello di civiltà di un Paese si misura anche dalla possibilità che ogni cittadino possa usufruire di un ospedale efficiente in grado di curarlo, abbia un reddito minimo di cittadinanza, una soglia minima di diritti a cui possa accedere indipendentemente dal reddito. E dunque il livello di civiltà di un Paese si misura anche dal fatto che tutti pagano le tasse. Come è raro sentire voci che si levino a sostegno di una tale tesi. Nel nostro Paese le virtù civiche sono molto carenti e l’affermazione di un’idea della cittadinanza intesa non solo come diritti ma anche come doveri e responsabilità è quanto mai difficile. E ciò in una certa misura contribuisce al cattivo funzionamento della democrazia.
Un altro esempio possibile è dato dalla vicenda delle pensioni, dal modo in cui il sindacato è riuscito ad evitare la rottura del rapporto tra le generazioni, ad affermare un’idea forte di solidarietà, a mantenere un sistema pensionistico pubblico senza nascondere le scelte anche dolorose da fare e chiedendo il consenso di coloro che concretamente, con i loro sacrifici, dovevano concorrere a renderle possibili.
Si è in questo caso difeso un valore, quello della solidarietà tra le generazioni, si sono indicate delle scelte programmatiche, si è ricercato il consenso democratico, si è fatta un’operazione nell’interesse del Paese.

Ancora sui concetti di unità e distinzione
Io credo che ancora una volta ci aiutino i concetti di unità e distinzione.
Unità in quello che De Giovanni ha definito il reciproco riconoscimento e definizione di alcuni valori comuni; distinzione nelle scelte concrete che si prospettano per la risoluzione dei problemi.
Questo punto del programma, questo punto delle scelte, in che maniera può essere, secondo voi, la chiave di volta, il passaggio attraverso il quale indicare alcune cose che è possibile fare in questa ancora lunga transizione?

Riccardo Terzi

Il legame con l’Europa
Una cosa mi pare emerga con chiarezza dai ragionamenti precedenti, ed è che questo legame con l’Europa è un punto strategico. Comporta dei prezzi, crea dei problemi, anche al movimento sindacale ed alle sue conquiste sul terreno sociale, ma fuori da tale contesto non c’è un avvenire vero per il nostro Paese.
Da un rapporto più stretto con gli altri grandi paesi dell’Europa abbiamo da guadagnarci, anche in termini politici. I modelli politici presenti negli altri paesi sono infatti abbastanza solidi ed una evoluzione politica italiana che si avvicini a questi modelli non sarebbe un fatto negativo.

La riforma delle istituzioni
In tale ambito, c’è sicuramente un’esigenza di riordino e di riforma delle istituzioni. Non credo però che il problema sia quello di un rifacimento generale della Costituzione: il patto costituzionale resta, nelle sue linee portanti, un punto di riferimento forte che non va rimesso in discussione.
Vedo qui un limite della discussione in atto. Sembra che tutto può essere ridotto a un problema di riforme istituzionali, tutto dipenda da lì. Io non sono d’accordo.
La palla al piede che abbiamo avuto in questi anni in Italia non è stata la sua costituzione, ma la sua classe dirigente, il sistema politico così come si è involuto e corrotto.
Sarebbe però sbagliato non vedere che c’è un problema serio di aggiornamento, di riforma dei sistemi istituzionali. Personalmente credo che tale riforma debba andare essenzialmente nella direzione di una più ampia articolazione dei poteri, dello sviluppo delle autonomie, del federalismo. Ovviamente tra le cose da fare non c’è solo questo.

Ridefinire i rapporti governo parlamento
C’è ad esempio la necessità di ridefinire i rapporti parlamento-governo, puntando ad un governo più stabile, meno in balia delle varie manovre parlamentari, che abbia concrete possibilità di adottare politiche di lungo termine. Non c’è dubbio infatti che in una situazione nella quale i governi durano mediamente meno di un anno, diventa inevitabile che le politiche siano di piccolo cabotaggio.
Un governo, se non ha i tempi necessari per avviare e portare avanti un’azione strategica, finisce per fare una politica del giorno per giorno.
Un problema di stabilizzazione del governo, di sua maggiore autonomia, anche rispetto al parlamento, c’è dunque sicuramente.
Il rafforzamento del ruolo dell’esecutivo può però essere ottenuto, secondo me, e soprattutto secondo l’opinione di molti autorevoli ed esperti costituzionalisti, attraverso l’adozione di sistemi vigenti in altri paesi dell’Europa, come quello tedesco e quello inglese, in cui ci sono esperienze di governi parlamentari molto forti.
Il presidenzialismo non è affatto l’unica strada percorribile.

Capire la società. Per dirigerla
Per quanto riguarda la politica e le politiche, ritengo che nell’agenda non ci possono stare soltanto le questioni istituzionali.
Questa è una bizzarria tutta italiana. Da un po’ di tempo la politica sembra fatta soltanto di presidenzialismo e semipresidenzialismo, legge elettorale, assemblea costituente.
La politica non può limitarsi a questo. Tanto più una politica che si ispira a valori e idee di sinistra.
La sinistra deve essere in grado di ragionare della società, deve capire, interpretare la società, dirigerla.

Inclusione ed esclusione
C’è un modello sociale europeo che è in crisi, messo in discussione dai meccanismi di globalizzazione, di competizione mondiale, che determinano in tutti i paesi nuove tensioni e nuove forme di conflitto sociale.
Il conflitto di classe tradizionale tende ad essere sostituito da un conflitto sociale molto più diffuso. Più precisamente si può dire che la contraddizione fondamentale non sta più luoghi tradizionali della produzione ma nel rapporto tra chi è escluso e chi è incluso, tra chi è dentro i processi sociali e economici, e chi se ne trova ai margini o ne viene espulso, trovandosi coinvolto in processi di precarizzazione del lavoro, e di esclusione.

Progresso e competizione tecnologica
Come affrontiamo questi temi? Come riusciamo a salvaguardare gli aspetti fondamentali del nostro modello sociale? Come teniamo insieme progresso, competizione tecnologica e qualità sociale della vita nelle nostre città, nel nostro Paese, in Europa?
Non entro ancora nel merito di quali sono le politiche, però è evidente che nel programma di una forza di sinistra ci devono stare anzitutto questi temi. Non ci si può limitare a discutere all’infinito di riforme istituzionali.

Ricostruire il sistema politico
Per quanto riguarda infine la politica in senso stretto, con questa devastazione in atto del sistema dei partiti mi pare quasi impossibile affrontare seriamente i problemi che abbiamo davanti. Va tentata quindi un’operazione di ricostruzione di un sistema politico adeguato alla nuova situazione, alle nuove esigenze.
E qui dobbiamo ragionare su che cosa è l’Ulivo e che cosa possiamo tentare di farlo diventare.
L’Ulivo rischia due derive. Essere nulla più che un cartello elettorale di partiti e partitini litigiosi che si contendono seggi e che ogni volta devono far sentire la loro voce per differenziarsi. Se è così, non ha forza di attrazione. Oppure quella di diventare un altro partito del leader, un comitato elettorale finalizzato esclusivamente all’affermazione di una determinata leadership, senza vita collettiva, senza una reale pratica democratica. E’ il modello berlusconiano. È vero che Prodi non ha il carattere di un forte leader carismatico, ma esiste comunque il rischio di uno svuotamento degli strumenti politici e di una eccessiva personalizzazione.

Dare un’anima all’Ulivo
La mia opinione è che bisogna dare a questa coalizione una coesione, un anima, un programma, un progetto, che tenga insieme almeno tutte quelle forze relativamente più omogenee.
Poi ci sono delle alleanze elettorali che possono essere fatte.
Dovremo fare i conti con Rifondazione, con la Lega, con varie forze di centro che si stanno in qualche modo riorganizzando.
Dobbiamo quindi avere da un lato un dialogo aperto con tutti, perché non c’è un bipolarismo già consolidato, c’è ancora un insieme di progetti possibili, ma dall’altro occorre un nucleo centrale di forze, le quali lavorino a consolidare le radici e l’identità politica dell’alleanza dell’Ulivo. Mi riferisco in particolare ai due maggiori partiti dell coalizione, il PDS e il PPI.

Un grande partito democratico?
Non so se il punto d’arrivo potrà essere in futuro un grande partito democratico, può darsi di si, anche se è sbagliato oggi forzare i tempi. Sta di fatto però che se restiamo fermi il nostro futuro diventa molto incerto. L’ulivo va quindi preso sul serio, come un possibile laboratorio politico, come il punto di partenza di un lavoro di tipo nuovo che superi le vecchie identità cristallizzate. Si può così creare nella società italiana, attraversata oggi da una crisi profonda, un punto di riferimento positivo per chi vuole tentare un’opera di ricostruzione.

Biagio De Giovanni

Come in ogni occasione in cui i nodi vengono al pettine, le cose adesso diventano più complesse. Sinora il ragionamento ha “tenuto” perché abbiamo delineato delle coordinate, secondo me utili, ma condurre il tutto verso la parte più propositiva è naturalmente molto difficile. Provo a farlo toccando brevemente tre o quattro temi.

L’impasse istituzionale
Parto dalla questione istituzionale non per eludere le questioni più strettamente relative alle politiche ma perché, come tutto il nostro ragionamento dimostra, è comunque un nodo centrale. Del resto abbiamo convenuto che siamo in un impasse certamente più forte e stringente di quello che c’è in altre parti d’Europa, e che esso, al di là delle crisi del sistema politico che sono più generali, mondiali, è fortemente condizionato dalla specifica crisi istituzionale che vive l’Italia.
Da questo impasse dobbiamo evidentemente uscire. Una delle maggiori difficoltà è data da una sorta di circolo vizioso in ci siamo infilati. I soggetti politici che dovrebbero essere deputati a farcene uscire, sono infatti a loro volta pesantemente coinvolti nella crisi.
Interrompere questo circolo vizioso mi sembra tutt’altro che semplice, anche se una società non muore per catastrofe. Se non ce la farà la politica, ci penserà la storia a vincolare la politica. Negli interstizi della storia, nei vuoti della cronaca, si creeranno le condizioni perché la catastrofe sia scongiurata. Al resto, ci penseranno la resistenza delle istituzioni, delle economie, delle imprese, degli individui.

Rosario Strazzullo
Ma per capire che cosa potrà succedere, in che direzione dobbiamo guardare?

Biagio De Giovanni

La sfida del maggioritario

Ci arrivo. Credo innanzitutto che dobbiamo raccogliere la sfida del sistema maggioritario e portarla fino in fondo. Parto da qui perché mi rendo conto che questa è una tesi che potrebbe essere in discussione fra di noi, e che certamente è in discussione nel Paese.
E dico che siccome l’impasse italiano ha un carattere specifico dobbiamo cercare di superare i principali tratti negativi che determinano tale impasse. E che poiché tra questi c’è sicuramente una confusa convergenza verso il centro di forze politiche diverse, noi dobbiamo provare ad impedire questo approdo.
Interpretare il centro
Sia chiaro. Quando parlo di confuso affollamento verso il centro non nego affatto che il centro esiste. Nego la necessità di un confuso affollamento attorno a questo centro che esiste; sostengo che esso può essere interpretato da sinistra e può essere interpretato da destra.
Poiché nessuno, credo, pensa veramente a una politica giacobina di sinistra né a una politica autoritaria di destra, questo centro della società italiana può essere interpretato da forze che portano valori, idee, progetti, esperienze non di sinistra, ma da sinistra, che è cosa diversa, o da destra.

I patti di desistenza
La scelta del maggioritario per me significa questo. Sono personalmente sempre più perplesso sugli sforzi che si stanno facendo per rigenerare la proporzionale, per esempio attraverso i patti di desistenza. Che sono i patti di desistenza, se non il ritorno alla proporzionale?
So bene qual è l’obiezione: c’è una particolare complessità della società italiana, che non a caso è stata sempre governata dal centro.
Non voglio sottovalutare nè questi nè altri argomenti ma ribadisco che a mio avviso se non si opera un salto su questo punto, non si esce in prospettiva dall’impasse.
La natura dell’impasse italiana
Del resto, la natura dell’impasse italiana sta sostanzialmente qui. Esso ha rappresentato anche la storia della democrazia italiana fino al 1989, quando la politica non poteva che muoversi su binari prestabiliti.
Fino all’89 nessuno poteva ragionevolmente pensare che, in quel quadro internazionale, il PCI potesse governare. Le cose adesso sono mutate, e quindi non c’è nessuna ragione al mondo per non spingere in questa direzione. Adesso che fare altro è possibile, bisogna cercare di farlo.

Il ruolo delle forze politiche e dei partiti
Quali sono i soggetti che dovranno spingere in questa direzione ?
Sicuramente i partiti, i soggetti politici.
A questo proposito devo dire che ho gravi perplessità sul modo in cui è stato costruito l’Ulivo.
Mi sembra che sia stato costruito un po’ alla vecchia maniera. È stato scelto un capo, con certe caratteristiche, poi sono state messi insieme pds, popolari, verdi, nuclei e pezzi di diverse, in qualche caso vecchie, realtà politiche, secondo logiche non sempre condivisibili.
Non so come da tutto questo possa venire fuori un’anima, un’identità, o bisogerà affidare il problema interamente al governo? Ma è credibile procedere in questa direzione?

La natura del partito
In questo quadro, per venire al PDS, ritengo un errore l’aver bloccato per tanto tempo ogni riflessione sulla natura del partito, sulle trasformazioni necessarie per adeguarlo a una realtà più europea, anche se vedo positivamente il fatto che ultimamente qualcosa sta cambiando.
Nel frattempo, quello che restava di questo partito sconvolto dalla storia, almeno secondo le mie impressioni, sta sparendo dalla scena come realtà collettiva, al punto che non esistono più veri organismi politici di direzione.
Avendo fatto finora tutti assieme un tentativo di ragionamento abbastanza rigoroso, nei limiti delle nostre capacità, vorrei che non si considerasse questa mia affermazione una semplice battuta. Credo che abbiamo di fronte un problema politico e di cultura politica.

I soggetti della politica
Per portare avanti questo processo e per uscire dall’impasse scegliendo senza ambiguità il sistema del maggioritario, è necessario che i soggetti politici più che mai si sviluppino come soggetti collettivi, portatori di culture, di valori, di idee, di progetti.
Oggi si può anche concedere una accentuazione della leadership, perché questo è un dato di tutte le società contemporanee e deve essere riconoscibile un partito anche attraverso il suo leader; ciò però non toglie che la politica non possa essere data semplicemente nella forma di qualche leader che la produce.

Le radici storiche
Anche nella politica contano, ovviamente, le radici storiche. In questo senso, non credo che l’Ulivo, nato come alleanza elettorale di forze diverse abbia un grande destino in quanto tale se non si ricomincia a lavorare sulle sue “componenti” per ridar forma a ciò cui spetta di prender forma. La dialettica politica deve nascere dalla distinzione, fonte di nuovi rapporti, non di separazione e settarismo.
Io vedo la riforma del PDS anche dentro questo processo più largo e questa ridorma dovrà guardare, più o meno direttamente, alle forme istituzionali che prevarranno nel governo complessivo del Paese e nella trasformazione dello Stato.
Quando affermo che bisogna avere il coraggio di scegliere il maggioritario intendo dire evidentemente che non possiamo più accogliere e accettare passivamente le forme tradizionali di parlamentarismo consociativo, che nascono da una visione vecchia e ristretta dei partiti.
Non possiamo essere più i sostenitori di un parlamentarismo astratto e assemblearistico, che rischia di rinascere se la riforma dei partiti mirerà a conservare quanto più possibile del passato. Anche perché rimarremmo gli unici al mondo.

Esecutività ed efficienza
Ormai le decisioni hanno bisogno di esecutività ed efficienza. Per toccare temi istituzionali, se c’è bisogno del controllo parlamentare, altrimenti usciamo dalla democrazia occidentale, è altrettanto vero che questo non può sfociare in un’assemblearismo inconcludente.
Probabilmente questa maggiore forza dell’esecutivo deve essere riconoscibile anche attraverso l’individuazione di una leadership. Neanche a me piace un presidenzialismo secco, all’americana, ma ribadisco che c’è bisogno di una maggiore visibilità delle leadership, anche per evitare che prevalgano le spinte al cattivo decisionismo che pure sono presenti nella società italiana.

Una nuova identità dei partiti
Contemporaneamente, sono convinto del fatto che i partiti debbano ritrovare una più precisa e rinnovata identità. E la possono ritrovare a condizione che ricomincino a fare la loro parte, ricostruendo progettualità e culture. A mio avviso, per quel che riguarda il PDS, per fare la nostra parte non possiamo continuare a ridurre al minimo questa dimensione.

Il concetto di cittadinanza
Passo al secondo punto, che riguarda il degrado dello Stato e della pubblica amministrazione, di cui “tangentopoli” è l’esito finale.
Abbiamo alle spalle decenni in cui si è indebolito fortemente il concetto di cittadinanza.
Si sono rafforzati i concetti di appartenenza partitica e si è sicuramente ridotta la funzione statuale della cittadinanza, quella per la quale il cittadino è anzitutto cittadino di uno Stato, poi partecipa alla vita di un partito, a una confessione religiosa, vive le sue esperienze concrete, di vita, professionali, ma in quanto cittadino di uno stato è parificato ad altri cittadini dello Stato con i quali c’è un reciproco e totale riconoscimento, e che sono riconosciuti come tali dallo Stato.
L’impasse della democrazia italiana si è prodotto fondamentalmente su questo terreno, e dunque da qui bisogna partire per avviare il processo di risanamento.
Ciò non significa naturalmente che le questioni relative alla cittadinanza risolvano tutto il resto. Ci sono le questioni del lavoro, dell’innovazione, dell’occupazione, del sud. Ma è quello della cittadinanza il nodo senza il quale non si risponde alla questione specificamente italiana.
Non c’è nessun cittadino europeo che sia debole come il nostro, così disarmato di fronte alla prepotenza dell’amministrazione, e contemporaneamente nessuna amministrazione che sia così debole di fronte all’arroganza non del cittadino ma del suddito arrogante, quello che si ribella ingiustamente al fatto che deve pagare le tasse, rispettare le regole e le leggi.
Tutto questo affonda veramente nella storia d’Italia, ma ci sono sicuramente moltissime responsabilità nostre, di tutti i partiti politici, di tutti coloro che hanno governato e tenuto insieme il Paese.

Rivoluzione tecnologica e difesa sociale
Dentro questo quadro, il punto su cui credo che dobbiamo riflettere è come oggi nel mondo tenere insieme il tema della rivoluzione tecnologica e informatica con la tenuta del tessuto sociale.
Il tessuto sociale prima “teneva”. Il lavoro era lavoro sociale, era lavoro immediatamente sociale, e la fabbrica, in quanto aggregato materiale, come massa di persone che stava insieme, ne rappresentava l’espressione più diretta.
Oggi invece la socialità va trovata in maniera mediata. Tra poco si potrà lavorare a casa con un computer e internet.
Come si risponderà a questo grande rivolgimento?

I vantaggi di un mondo aperto
Forse per l’Italia, che ha un sud così debole, i processi di globalizzazione, con la loro dimensione aperta, possono rappresentare un’occasione nuova ed importante.
Nelle fasi precedenti le localizzazioni erano rigide, le frontiere rigorose. Adesso che tutto questo mondo si apre è possibile immaginare che regioni deboli possono avere degli input di sviluppo diffuso. Non penso alla grande industria ma ad uno sviluppo tecnologico che oggi può saltare certi passaggi prima obbligati.
Può essere sviluppato ciò che nel Mezzogiorno in parte già si intravede: certe attività diffuse, apparentemente marginali, ma in realtà estremamente produttive, capaci di produrre ricchezza e perfino di creare piccole aree ad alta intensità di occupazione.

L’importanza di essere alternativi
Tutto questo magma di problemi istituzionali, politici e sociali a cui ho accennato, può essere interpretato da destra e da sinistra.
Non siamo obbligati a rassegnarci ad un’idea della politica come ad una sorta di magma indistinto. Tutti i temi che abbiamo discusso, dal maggioritario al ruolo del parlamento, dal lavoro all’integrazione europea, possono essere letti, interpretati in maniera diversa a seconda dei valori, delle progettualità, dei diversi riferimenti culturali, nel senso più lato di questa parola.
Per questo parlo, più che di centrodestra e centrosinistra, di un centro che può essere interpretato da destra e da sinistra.

Riccardo Terzi

L’articolazione dei poteri
Sono anch’io dell’idea di portare a compimento la riforma del sistema politico in senso maggioritario. Bisogna però precisare che cosa intendiamo dire con questa formula, perché ci sono diverse possibili interpretazioni.
Mario Segni, ad esempio, sostiene che il presidenzialismo è lo sbocco necessario della riforma maggioritaria. Io credo invece che non vi sia nessun rapporto di necessità tra il sistema elettorale maggioritario e il presidenzialismo.
Avremmo in questo modo una evoluzione del sistema politico nel senso di una definitiva destrutturazione dei partiti. E’ un approdo pericoloso, da contrastare. Può essere anche questa una forma di democrazia, ma è una democrazia plebiscitaria, estranea alla storia politica e costituzionale dell’Europa.
Credo che la democrazia in un paese maturo e complesso, che ha le tradizioni dell’Italia, debba basarsi su una precisa tradizione costituzionale che ci mette al riparo dagli eccessi di concentrazione del potere.
Se il modello è il popolo che sceglie il suo leader, di destra o di sinistra che esso sia, vengono meno le caratteristiche e le garanzie proprie di uno stato di diritto, viene meno l’articolazione dei poteri, si rompe l’equilibrio costituzionale.

La formula parlamentare
E’ preferibile una formula parlamentare. Anche se sono vere le cose che diceva De Giovanni quando ricordava che non possiamo più pensare ad un parlamentarismo puro, che finirebbe per espropriare il governo delle sue prerogative politiche. L’azione di governo deve avere una sua autonomia e bisogna allora trovare dei meccanismi di rafforzamento dell’esecutivo e fissare una più chiara e netta distinzione di ruoli tra parlamento e governo, dentro un quadro di equilibri e di garanzie nel rapporto tra i diversi poteri.

Il ruolo delle rappresentanze
Si sta invece diffondendo una forzatura del tutto demagogica, secondo la quale sono i cittadini che decidono direttamente, in quanto unici depositari dell sovranità e con ciò salta tutto il sistema delle rappresentanze intermedie: partiti, sindacati, autonomie locali.
L’approdo finirebbe per essere un sistema in cui alla partecipazione politica come fatto collettivo si sostituisce il singolo come cittadino-consumatore, manipolato dai grandi mezzi di informazione. Per questo occorre vedere criticamente, senza enfasi retorica, il passaggio verso il maggioritario.
Certo, è stato un passaggio necessario. C’era un sistema politico bloccato, incapace di rinnovamento, e la scelta del maggioritario ha costretto i partiti a mettersi in movimento, a ridefinirsi, a ricollocarsi, ha aperto una dinamica nuova.
Però è un processo che sarà lungo e travagliato, dato che non siamo ancora in presenza di un bipolarismo consolidato, organizzato. E l’obiettivo non è una mitica “democrazia dei cittadini”, ma è piuttosto la costruzione di un sistema politico rinnovato, nel quale riprende senso la politica come azione collettiva.
Occorre perciò un’analisi concreta della situazione politica, delle forze politiche che si stanno muovendo, cercando di cogliere le dinamiche reali e la complessità della situazione.

Bipolarismo e non solo
Dire che ormai c’è il bipolarismo, c’è Berlusconi, c’è Prodi, ed in mezzo non ci deve essere niente, mi sembra riduttivo. I due poli sono in via di formazione e sono ancora attraversati da contraddizioni interne.
Non è detto che l’assetto definitivo sia questo. Qualsiasi forza può perciò essere legittimata a candidarsi a svolgere un ruolo nella vita politica italiana, senza per forza riconoscersi nei due poli così come sono oggi.

Il grande centro
In questo quadro, non sono ossessionato dal fantasma del ritorno del grande centro. Il centro c’è in qualunque società, in particolare in quelle come la nostra che non possono essere interpretate nell’ambito di un bipolarismo di tipo classico. In Italia, in più, il centro ha espresso una cultura politica che è attualmente in crisi, ma non è affatto scomparsa. Mi riferisco alla tradizione del cattolicesimo democratico. Abbiamo fatto soltanto un accenno, nella nostra conversazione, al tema della Chiesa, ma è bene ricordare che i cattolici nel nostro Paese rappresentano una forza importante, una componente decisiva in entrambi gli schieramenti.
Ciò che è vero è che non c’è più un centro autosufficiente, che il centro non è più il motore del sistema.

Dialogare con tutti
Questo non c’è più, però faremmo bene a cercare di capire ciò che succede, senza semplificazioni. C’è un travaglio dell’area cattolica e moderata, ancora incerta, che guarda a sinistra con molti dubbi sulla possibilità che questa alleanza funzioni, che sia rispettosa di certi valori.
C’è quindi un sistema politico che non ha ancora trovato il suo equilibrio, per questo è sbagliato, a mio avviso, guardare con diffidenza e ostilità qualunque cosa si muova al di fuori dello schema astratto del bipolarismo, che sia Dini, Di Pietro o la Lega. Invece in questa fase occorre avere un dialogo aperto con tutti. Chi ha idee le tiri fuori, e misuriamoci con esse.
Una sistemazione chiara del sistema politico può venire solo dopo.

Destra, sinistra e centro
In questo quadro destra, sinistra e centro sono parole convenzionali e soltanto alla fine di un processo di decantazione, di ristrutturazione del sistema esse potranno avere una loro definizione più compiuta.
Questo non vuol dire favorire un centrismo come luogo di operazioni puramente trasformiste. Ciò va sicuramente scoraggiato. Il sistema politico dovrà evolversi verso forme tendenzialmente bipolari.
Forse un sistema a doppio turno può essere più chiaro, perché la legge elettorale così come è in realtà non ha determinato una semplificazione del sistema dei partiti.

Le forme della democrazia
Infine sono d’accordo sul fatto che c’è il problema, che ci riguarda direttamente, delle forme della democrazia.
Una maggiore personalizzazione, un ruolo più marcato del leader, possono in parte rappresentare una tendenza oggettiva, inevitabile, anche a causa della preponderanza del mezzo televisivo.
Non ritengo però che ci si debba adattare all’idea che non c’è nulla da fare, che la vita pubblica italiana si debba reggere sul parere di dieci persone, che tutto il resto non conta o conta molto marginalmente, che i partiti non hanno più una vita democratica interna minimamente strutturata.
Mi pare questo un grosso problema che riguarda non solo i partiti, ma lo stesso funzionamento generale della democrazia, anche se si avverte una maggiore vitalità delle organizzazioni sociali, dello stesso sindacato, che nonostante una certa pesantezza burocratica, ha mantenuto una sua struttura, una sua circolazione democratica.

Biagio De Giovanni

Il doppio turno
Concordo sul fatto che il maggioritario non implica necessariamente un presidenzialismo secco. Ma credo che “maggioritario” e “presidenzialismo” abbiano un rapporto abbastanza obbligato, anche se si potrebbe a lungo discutere sul tipo di presidenzialismo.

Il ruolo del leader
La leadership non è un fatto di secondo piano e oggi la politica questa dimensione dentro di sé ce l’ha; occorre evitare che diventi esclusiva ma che ci sia è fuor di dubbio.
E’ diffusa ad esempio la convinzione che l’Europa non esisterà finché non sarà individuabile attraverso un leader: il presidente dell’unione europea, non più il presidente di turno.
Il presidente come figura che personifica l’unione.
Con il presidenzialismo la leadership rischia di diventare esclusiva, e questo è un problema, ma la questione esiste, ed è anacronistica ogni idea di parlamentarismo anonimo, da primi anni del novecento.

Non tornare indietro
Insisto. Portare a termine la riforma in senso maggioritario è importante. Perché metto l’accento su questo “portare a termine”?
Intanto per una ragione polemica, perché molte forze lavorano per tornare indietro.
E poi perché è l’unico sistema che obbliga, se attuato, al reciproco riconoscimento. Se non c’è questo reciproco riconoscimento il maggioritario non può esserci, perchè rischia di diventare “totalitario”, regime..
E questo in un certo senso dovrebbe aiutare a risolvere un problema tuttora aperto nella politica italiana, per ragioni obiettive, la quantità e la qualità dei problemi da affrontare, e per un livello di conflittualità tra le forze politiche anomalo rispetto agli altri paesi.
Dove può stare l’errore? Nel considerare un sistema elettorale, qual è il maggioritario, la medicina per curare tutti i mali.
Quando è che è decisivo un sistema elettorale? Al momento del voto.

Il ruolo della società
Prima c’è la società, ci sono le associazioni, i partiti, i soggetti di rappresentanza politica, che hanno una loro legittimità, una loro presenza nella formazione dell’opinione pubblica, nel controllo degli esecutivi, nel controllo della pubblica amministrazione.

E del parlamento
Vorrei aggiungere una considerazione sul ruolo del parlamento.
Sono sempre più convinto, anche alla luce della mia esperienza europea, che bisogna aumentare le funzioni di controllo dei parlamenti, non quelle legislative. Ritengo infatti che l’aumento delle funzioni legislative dei parlamenti in una società complessa è un obiettivo utopistico, pressoché irrealizzabile.

Vincenzo Moretti

In questo gran parlare di politica noto che non abbiamo minimamente affrontato la questione del come sarà finanziata.

Biagio De Giovanni

I costi della politica
Hai ragione. Il fatto è che dopo “tangentopoli”, la crisi dei partiti, non si è più parlato del costo della politica e non si capisce come ci si possa porre il problema di una ripresa dei partiti ignorando totalmente quello delle fonti di finanziamento dei medesimi.

L’assemblea costituente
Tornando al tema precedente, voglio ribadire, a conclusione di tutto questo lunghissimo ragionamento, che non sono per l’elezione di una assemblea costituente, perché non ritengo che il patto alla base della costituzione repubblicana debba essere sostituito da uno completamente nuovo.

Vincenzo Moretti

La classe dirigente
Proviamo a introdurre in questa nostra discussione, di cui De Giovanni ha giustamente ricordato il taglio, almeno nelle intenzioni, rigoroso, con una concessione alla cosiddetta politica spettacolo.
Proprio noi quattro, assieme a Luca De Biase, giornalista, e ad Ettore Combattente, dirigente sindacale, abbiamo scritto in un documento alcune idee relative alla necessità di costruire in Italia una classe dirigente e di combattere la scelta del leaderismo come accentramento di ogni potere e decisione nelle mani di uno o di pochi. Su questo tema abbiamo promosso iniziative e discussioni che continuo a ritenere molto utili.
Nel corso di una di queste discussioni un vecchio militante del PCI prima e del PDS dopo, di quelli che da ragazzi hanno vissuto in prima persona le ultime fasi della resistenza, mi ha fatto questo ragionamento: ” una classe dirigente è stata quella che si è costituita durante la resistenza; una classe dirigente è stata quella venuta fuori durante le lotte del 68. Nell’uno e nell’altro caso sono stati decisivi i valori, le idee, le lotte, le dinamiche sociali: oggi una classe dirigente come si costruisce, su quali basi?”.
Come si costruisce?
Avete pochi minuti ciascuno per provare a dire oggi come si costruisce una classe dirigente.

Riccardo Terzi

Valorizzare le risorse
Io dico solo che una democrazia che funzioni correttamente deve essere in grado di costruire una classe dirigente anche senza sconvolgimenti epocali.
Certo. Momenti come quelli della Resistenza o del 1968, di grandi sconvolgimenti sociali e politici, fanno selezione, fanno emergere delle personalità forti.
Noi, oggi, dobbiamo pensare ad una selezione della classe dirigente da fare in una situazione diversa.
Per costruire questa classe dirigente dobbiamo guardare non soltanto ai partiti ma ad una realtà democratica più ampia, dalle associazioni al personale amministrativo di livello alto della pubblica amministrazione, alla società nel suo insieme.
Le risorse ci sono e si tratta di avere una politica per valorizzarle. I partiti dovrebbero fare di più una politica di promozione, di formazione, di valorizzazione di forze.
Ecco, io non aspetterei una nuova catastrofe, preferirei affrontare il problema in modo un po’ più pragmatico.

Biagio De Giovanni

Alla questione posta da Moretti darò una risposta breve, per una ragione molto semplice. Secondo me una risposta c’è, anche se mi rendo conto che può significare niente e può significare tutto.

Il punto più alto di unificazione
Per formare una classe dirigente bisogna avere in mente il punto più alto di unificazione della situazione contingente.
Il punto più alto di unificazione nel 1945 era la resistenza, l’antifascismo e la costituzione.

L’Europa
Oggi il punto più alto di unificazione è l’Europa e quindi una classe dirigente si forma se in tutte le realtà diffuse, dalla società civile al governo del paese, questo nodo Europa entra nel meccanismo delle decisioni quotidiane.
Devo dire che in questo ultimo anno siamo riusciti a fare uno sforzo rilevante per convincere il gruppo dirigente del PDS che l’Europa è una cosa che esiste e che è anche una cosa di una certa importanza.
In parte ci siamo riusciti con delle iniziative che hanno avuto un grosso riscontro. E vedo che quando questo dato non rimane un richiamo generico, cresce la consapevolezza di essere classe dirigente di governo.

Il governo del Paese
Naturalmente, oggi, il concetto di classe dirigente, l’idea di costruire una classe dirigente, deve essere completato dall’idea di costruire una classe dirigente per il governo del paese.
Questo allargamento della visione al di là dei confini provinciali localistici o anche semplicemente nazionali, è un elemento essenziale
Questa dimensione oggi può essere anche un’esaltazione delle radici storiche da cui ciascuno di noi proviene.

Una nuova prospettiva
Siccome queste radici storiche dentro i quali ciascuno di noi si è formato esistono, così come i partiti, la domanda per formare una nuova classe dirigente può essere la seguente: come dare a queste radici una nuova prospettiva?
Io ho indicato il terreno dell’Europa. Non puoi più formare la classe dirigente come hai formato quella del PCI, non è alle porte un grande processo di conflittualità politica dentro il quale formare e selezionare una classe dirigente di massa come sono stati l’antifascismo e la resistenza.
Hai però questi terreni su cui ti devi confrontare. E sono terreni non da poco.

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