Le ragioni della crisi

Vincenzo Moretti

La globalizzazione
Credo che si possa cominciare, ci siete tornati più volte nel corso di questi mesi, affermando che c’è una crisi della politica che ha una dimensione europea e mondiale e che averne la consapevolezza ci aiuta a vivere senza eccessiva angoscia i problemi e le questioni aperte a livello nazionale.
Avete parlato in altre occasioni di una politica che, nel quadro dei processi di globalizzazione in atto, rischia di diventare subalterna, una sorta di “ancella” delle leggi economiche.
Sono per molti versi le stesse questioni che ha posto Darehndorf quando si è riferito alla crisi della politica intesa come declino della sua capacità di indicare soluzioni alle grandi questioni del nostro tempo.

L’anomalia italiana
Contemporaneamente, siete più volte ritornati sugli elementi di specificità che caratterizzano la crisi italiana.
Il perdurare di una situazione in cui all’azzeramento della vecchia classe dirigente non è fino ad oggi corrisposta una compiuta capacità di mettere in campo soggetti e forze nuove, è certamente uno di questi. Ma si possono fare altri esempi.
C’è una continua sovrapposizione di temi e questioni, dal bipolarismo alla ricostruzione del centro, dal federalismo al presidenzialismo, dalla bicamerale all’assemblea costituente, che di certo non attenua il senso di confusione che caratterizza questa stagione politica. Permane una esasperata spettacolarizzazione che sembra ridurre la politica a ciò che fanno di volta in volta Prodi, D’Alema, Di Pietro, Berlusconi. Le vicende giudiziarie continuano ad avere una oggettiva e forte rilevanza politica.
La politica continua insomma ad essere in affanno. E la possibilità che essa riesca a riconquistare il ruolo avuto ancora per gran parte di questo secolo appare sempre più remota.
Credo si possa cominciare affrontando questi due punti: l’indebolimento del potere politico delle singole nazioni a fronte della dimensione internazionale del potere economico; e l’anomalia italiana. E credo sia utile farlo senza perdere di vista i legami che tra essi intercorrono.

Riccardo Terzi

L’economia mondo e la politica nazione
Credo che sia giusto collocare la questione in una dimensione più ampia rispetto a quella nazionale: la crisi sta innanzitutto nella difficoltà crescente della politica e dei suoi strumenti a governare i processi reali.
Nell’era della mondializzazione dell’economia, e della conseguente riorganizzazione dei grandi poteri economici su scala mondiale, le strutture politiche non hanno la forza né gli strumenti per svolgere un ruolo effettivo di governo, anche perché la politica è stata costruita sul modello degli Stati nazione, in una fase storica nella quale il capitalismo era fondamentalmente nazionale e c’era perciò un rapporto reciproco, una corrispondenza, tra la politica e l’economia.
Oggi abbiamo invece una situazione squilibrata. E le difficoltà si avvertono anche in paesi dove il sistema politico è forte e strutturato, dove i grandi partiti sono ancora fortemente radicati e non c’è una situazione politica confusa come quella italiana. Anche lì il rischio di una politica subalterna, che prende atto della oggettività dei processi economici, è tutt’altro che remoto. A ciò si aggiunge un ulteriore problema rappresentato dai mutamenti intervenuti nel rapporto tra sovranità nazionale, dimensione europea e dimensione mondiale. La costruzione di forti istituzioni politiche europee è la condizione necessaria per restituire alla politica la sua funzione.

La crisi del sistema politico
La situazione italiana riflette queste difficoltà generali. Da noi però la crisi politica è molto più acuta perchè condizionata dalla destrutturazione del sistema dei partiti che hanno governato per un lungo periodo di tempo l’Italia. Di fatto, il nostro sistema politico è completamente inceppato.
Sento da varie parti sostenere la tesi che dalla crisi italiana si esce rifacendo il patto costituzionale. Secondo questa tesi, la crisi dipende dal fatto che ci sono delle istituzioni non più adeguate e che vanno dunque riformate riscrivendo la Costituzione.
Questa tesi non mi convince, non perché non ci sia anche un problema di riforma della Costituzione, la quale ha certamente bisogno, in molti punti, di un aggiornamento e di una revisione critica. Però non credo che stia qui il cuore della crisi.
Esso sta nel fatto che si è completamente dissolto il sistema politico, e quindi prevale, come dice Moretti, una politica impazzita, nevrotica, tutta giocata sul giorno per giorno, sulla manovra tattica, capace di passare, per l’appunto, dall’esaltazione mitologica del bipolarismo alla proposta del governissimo.

Assestamento e transizione
Io credo che dobbiamo ragionare sulla crisi del sistema politico e su questa fase, che non sarà breve, di assestamento e di transizione.
Si va verso una direzione tendenzialmente bipolare, però il processo è ancora incompiuto e lo stesso progetto dell’Ulivo allo stato delle cose è ancora in larga parte da definire. Non siamo ancora in presenza di un bipolarismo organizzato, ma di un processo tuttora molto tumultuoso che, secondo me, avrà tempi non brevi. In assenza di un sistema politico strutturato tutta la situazione resta precaria.

Riorganizzare il sistema politico
Anche gli aspetti positivi che ci si attendeva legittimamente dalla riforma elettorale non si producono se non si riorganizza il sistema politico. Difatti dove c’è un sistema politico organizzato il punto decisivo non è la legge elettorale. In Inghilterra c’è il maggioritario, in Germania il proporzionale, ma in ambedue i Paesi il sistema politico, con le sue difficoltà, tiene.
In Italia esso, per varie ragioni, è entrato in crisi. Mi pare questo il punto specifico che caratterizza la situazione italiana.

Biagio De Giovanni

L’importanza dell’89
Mi sento molto in sintonia con l’avvio del ragionamento di Terzi.
Credo che la vicenda sulla quale si dovrà tornare con molta più capacità analitica di quanto non si stia facendo è quella che nasce con il 1989. Essa va considerata come l’elemento fondamentale di quella destrutturazione degli ultimi 50 anni della storia mondiale che sta producendo effetti a catena. Come sempre, tali effetti non sono ideologici, ma riguardano gli equilibri e le forze in campo. Mi pare ad esempio abbastanza evidente che questa destrutturazione è alla base dell’accelerazione del processo di globalizzazione dell’economia.
La questione che il 1989 ci consegna è la seguente: come si ritrova un equilibrio dopo che per 50 anni e più la storia è stata legata a una certa definizione delle grandi strutture politiche e dell’insieme delle forze in campo?
Gli sconvolgimenti da analizzare sono di diversa natura, sia culturale sia politica, e stanno tutti dentro quella vicenda.
Dentro quella vicenda c’è anche quello che Terzi giustamente definiva il mutato rapporto fra economia e politica.

La crisi degli stati sociali e la crisi della democrazia in Europa
Moretti ricordava che la politica non è più in grado di governare i processi reali. Io aggiungerei un ulteriore elemento sul quale certamente avremo occasione di tornare: la crisi degli Stati sociali in Europa. La crisi, cioè, del rapporto tra politica, Stato e Nazione.
Gli stati sociali sono appunto grandi esperimenti, e conquiste di dimensione nazionale. Abbiamo spesso affermato che le socialdemocrazie hanno acquisito con molta difficoltà la dimensione sovranazionale perché hanno sempre guidato processi e realizzato compromessi nazionali tra le forme capitalistiche del proprio paese e le classi lavoratrici.
Faremmo bene a chiederci se la crisi degli stati sociali è in una certa misura, e in che misura, la crisi della struttura e della forma della democrazia in occidente.
Questo mi pare un nodo ineludibile. Lo stato sociale non è una semplice soluzione empirica. In tutta la vicenda del novecento le politiche del welfare segnano e determinano la sostanza e la forma con la quale si è costruita la democrazia in occidente. Da qui segue che la destrutturazione, la crisi dei sistemi politici non è solamente crisi delle forme di governo ma è forse in maniera più radicale crisi delle forme nelle quali la democrazia, nelle società più sviluppate, ha organizzato il proprio linguaggio in rapporto agli equilibri di classe, sia sociali, sia culturali, sia politici. Da qui la sensazione di una difficoltà profondissima.
Per quanto riguarda i caratteri internazionali della crisi il mio ragionamento si ferma per ora qui, ponendo questi problemi.

Crisi politica e crisi istituzionale
Nessun dubbio naturalmente sul carattere particolarmente profondo, drammatico, anomalo, se vogliamo cominciare ad usare questa parola, della crisi italiana, le cui ragioni sono legate a vicende molto complicate.
Probabilmente, per comprenderle a fondo, sarebbe necessario tornare sulla storia dell’Italia-nazione.
Nell’economia del nostro ragionamento mi sembra però più utile soffermarmi sulla questione, affrontata da Terzi, del rapporto tra crisi del sistema politico e crisi del sistema istituzionale.
Sono molto convinto della forza che ha avuto nella crisi italiana il 1989, come punto d’avvio per lo scioglimento del PCI, la sostanziale messa in crisi della forma della politica della prima repubblica, la crisi e l’esaurimento della funzione storica della DC. In Italia la crisi prende una forma diversa che altrove: sono “scomparsi” infatti i due partiti che hanno fatto la storia della prima repubblica.
Richiamo continuamente i dati storico politici e le date perché mi pare che altrimenti rimaniamo nell’ambito limitato della sociologia politica o della politologia.
La specificità della crisi italiana, molto prima che di “tangentopoli”, è un effetto di questo processo, nasce cioè dal fatto che si destruttura la forma storica del sistema politico.
La sua stessa gravità e profondità dipendono in larga parte dalla destrutturazione radicale delle culture politiche intorno alle quali è stata costruita la vicenda storica italiana della prima repubblica e quindi dall’immenso vuoto di culture politiche che si è creato.
Per queste ragioni il 1989 ha nel nostro Paese un impatto che non può avere altrove.
Quello che Moretti affermava sottolineando che tutto è ridotto al tatticismo, al giorno dopo giorno, all’incapacità di individuare priorità e definire scelte trova, secondo me, in questo immenso vuoto che la ristrutturazione così precipitosa del sistema politico ha determinato, la sua spiegazione.

Il nodo centrale della crisi
L’accento va dunque messo, anche qui concordo con Terzi, sulla crisi del sistema politico. Naturalmente, si tratta di capire che cosa si intende per sistema politico e affrontarne le diverse implicazioni. Non possiamo infatti dimenticare che in Italia l’intreccio fra crisi politica e istituzionale è particolarmente stringente, per le ragioni che ho detto prima. E se è vero che anche in altri grandi stati occidentali questo tema sta emergendo, bisogna riconoscere che ciò avviene in forme infinitamente meno urgenti e drammatiche che da noi.
Riassumerei dunque la questione in questo modo: il nodo centrale della crisi è nel sistema politico, ma è necessario fare una riflessione più generale per comprendere in che modo la crisi del sistema politico è andata a incidere sulla forma del sistema istituzionale. Da questo versante il problema della costituzione torna in campo.

Vincenzo Moretti

Il Paese delle cose incompiute
Colgo nei vostri ragionamenti due prime indicazioni, ancora una volta strettamente correlate.
Da un lato avete infatti sottolineato che il centro della crisi e delle forti, e per molti versi peculiari, difficoltà che attraversa il nostro Paese sta nella presenza di un sistema politico destrutturato. Dall’altro che in questa destrutturazione hanno giocato un ruolo decisivo i fatti dell’89.
Viene da chiedersi perchè, nonostante l’89 abbia riguardato l’insieme dell’Europa, solo nel nostro Paese le conseguenze siano state di queste dimensioni.
Forse perchè c’è stata una sopravvalutazione del ruolo internazionale del nostro Paese nella fase di contrapposizione tra i blocchi, e dunque una rendita di posizione che è venuta meno con la caduta del muro di Berlino?
Certo non si deve al destino cinico e baro il fatto che gli effetti dell’89 siano stati così dirompenti proprio nel paese di “tangentopoli”. E forse non poche cose possano essere chiarite guardando all’Italia come ad un paese che in più fasi della sua storia, anche recente, è stato caratterizzato da una democrazia bloccata, dove non prevalgono mai opzioni nette, scelte alternative.
Siamo il Paese delle cose incompiute, irrealizzate, non definite.

Rosario Strazzullo

Le vecchie culture politiche e la crisi
Vedo anch’io emergere nella nostra discussione un punto forte di ancoraggio: è quello che avete definito destrutturazione del sistema politico, crisi del sistema politico. E mi sembra giusto partire da qui per avviare un ragionamento sulla crisi italiana.
De Giovanni ne ha dato già una prima specificazione: in Italia questa crisi politica è nata dallo scioglimento del PCI e dagli effetti che tale scioglimento ha oggettivamente avuto sulle altre culture politiche.
Proviamo dunque ad approfondire questo aspetto e proviamo a farlo in un’ottica non solo nazionale, riprendendo ad esempio quest’idea del crollo dei sistemi dell’Est come effetto della globalizzazione che ancora De Giovanni ha introdotto.
Il tentativo di definire la crisi italiana confrontandola con quanto avviene nel resto d’Europa ci conduce a mio avviso assai rapidamente alla necessità di rispondere ad almeno due interrogativi: non è che già da tempo le vecchie culture politiche non fossero più in grado di tenere in piedi e unito questo Paese? E non sta qui un’origine più profonda della crisi italiana, che precede l’89?
Vedo in questo ambito la possibilità di intrecciare problemi storici e problemi politici, di ragionare combinando insieme gli elementi critici della politica europea e mondiale con quelli specifici della destrutturazione della politica italiana.

Riccardo Terzi

Il Paese bloccato
Strazzullo ha anticipato una questione importante, che mi riproponevo di affrontare: se proviamo a cercare le radici della crisi politica in Italia, troviamo che sono lontane.
Il sistema politico italiano è rimasto a lungo un sistema bloccato; forte, ma bloccato sui grandi pilastri della DC e del PCI, che non erano in grado di realizzare un’alternanza democratica e che hanno prodotto significativi fenomeni di consociativismo.
C’è una paralisi del sistema politico già negli anni 70.
Pensiamo alla riflessione di Aldo Moro in quegli anni, al tentativo di trovare, con la proposta di apertura della terza fase, la strada capace di superare questo blocco del sistema politico. E l’elaborazione che avviene in casa comunista con il compromesso storico è un altro e parallelo tentativo di trovare questa via. Con la morte di Moro, si blocca definitivamente questa ricerca. Dunque, come sostiene giustamente Strazzullo, non c’è soltanto l’89: la situazione di stagnazione, di scarso dinamismo del sistema è antecedente a quella data.
L’89 fa precipitare le cose. E’ ciò che ricordava prima De Giovanni: saltano i due pilastri che hanno tenuto insieme il sistema e lo hanno contemporaneamente bloccato e conseguentemente si dissolve completamente l’equilibrio precedente.
Nella crisi di questi ultimi anni hanno insomma pesato diversi fenomeni.

La forza travolgente dell’89
Gli eventi internazionali innanzitutto: la deflagrazione dell’Unione Sovietica, il superamento dei blocchi, la riunificazione tedesca, la caduta del muro di Berlino.

Tangentopoli
Poi la vicenda tangentopoli, che fa emergere a livello di massa quella sfiducia profonda nei confronti della politica da tempo presente nella coscienza collettiva del Paese. Tangentopoli è l’elemento scatenante che fa diventare tale sfiducia enormemente più forte di quanto non fosse precedentemente, per cui si determina una vera e propria rottura nel tessuto connettivo della società italiana.

La Lega
Poi ancora la variante Lega. La Lega è un fenomeno non facile da inquadrare. Il primo segno di scollamento del vecchio sistema è stato proprio il successo elettorale della Lega in alcune regioni del Nord, che ha colto praticamente tutti di sorpresa.
Quando questo signor Bossi ha cominciato ad andare in giro per le valli della Lombardia, si pensava che fosse un fenomeno molto marginale, effimero, frutto di un localismo senza respiro nazionale. Solo quando la Lega diventa in Lombardia ed in una città come Milano il primo partito, ci si accorge finalmente che non è soltanto un fenomeno folcloristico.
La Lega è un primo segnale, è un campanello di allarme molto forte e la sua affermazione avviene sulla base di una proposta di tipo separatista: il Nord fa da solo. C’è una crisi politica, e questa crisi mette in causa la stessa unità nazionale.

Il sistema istituzionale
Infine, anch’io ritengo che vanno affrontate le questioni relative al sistema istituzionale, che non è possibile separare in modo netto il sistema politico dal sistema istituzionale, che per dare uno sbocco positivo, democratico, alla transizione, bisognerà ragionare ed intervenire sul funzionamento delle istituzioni.
Bisogna vedere però come, e in che direzione.
Ciò che io temo e che penso debba essere apertamente contrastato è un approccio al tema delle riforme che si riduce in sostanza a una semplificazione autoritaria. Secondo tale concezione, il sistema sarebbe in crisi perché c’è un sovraccarico di domanda democratica, e allora si tratta soltanto di rafforzare l’esecutivo. La risposta presidenzialista è sostanzialmente una risposta di questo tipo: la democrazia parlamentare non funziona, e si tratta allora di rafforzare il potere centrale, di concentrare tutto il potere decisionale in un punto.
Se assumiamo che c’è il problema delle riforme istituzionali, bisogna vedere da quale versante lo affrontiamo: attualmente sono in campo risposte molto divaricate e anche per questo non capisco bene su quali basi oggi si possa fare un’assemblea costituente. Non c’è una cultura politica comune e se si parte da analisi, da proposte molto contraddittorie tra di loro, non può che venirne fuori un pastrocchio, un compromesso molto pasticciato: un pizzico di federalismo e un pizzico di presidenzialismo, senza un disegno organico.
Bisognerà quindi far maturare le condizioni politiche perché ci sia un disegno comune, un’impostazione complessiva di politica costituzionale.

Biagio De Giovanni

Un punto di rottura storica
Riconosco che ho enfatizzato l’importanza delle vicende dell’89, ma insisto su questa enfatizzazione perché senza quel punto di rottura storico, oggi le cose nel mondo sarebbero del tutto diverse. Per fare un solo esempio, in Italia continuerebbero probabilmente ad esistere DC , PCI e – perchè no? – PSI.
È chiaro che non nasce tutto da lì. Ma per certi versi proprio perché gli elementi di crisi forte, di blocco, sono molto antecedenti, i fatti dell’89 hanno finito per assumere una rilevanza decisiva.
Alla domanda di Moretti sul perché nel nostro Paese l’89 ha l’effetto che ha, credo di aver già risposto.

La sopravvalutazione dell’Italia
Vorrei invece riprendere l’altra questione da lui introdotta.
Dall’osservatorio europeo è apparso con una evidenza solare che fino all’89 l’Italia è stato considerato come un Paese politicamente importante. Il suo essere uno stato politico di frontiera, o che comunque tale veniva giudicato, ne faceva un punto di equilibrio storico importante e riusciva persino a rendere fondate, motivate, le ragioni di alcune particolari “licenze”, tra virgolette, che le erano concesse. Così si spiega la politica nei confronti del medio oriente, la stessa politica nei confronti dell’EST, una certa forma dell’andreottismo. Per inciso, Andreotti è ancora oggi il politico italiano più noto e stimato a livello internazionale.
Con l’89, diventiamo, come si diceva una volta, un’espressione geografica: non esiste più una funzione politica dell’Italia e si tratta, ora, di riconquistarla faticosamente nel nuovo contesto politico.

L’intreccio
Secondo me ognuna delle cose fin qui affermate la possiamo leggere in rapporto alla successiva. Più che parlare di una catena di cause e di effetti, mi pare però utile riferirsi ad un complicato e labirintico intreccio dentro il quale ritroviamo diverse cose che insieme danno il senso della profondità di una crisi.
E questa è un altra delle ragioni per le quali l’89 in Italia ha un impatto molto più violento che altrove, dove i condizionamenti erano molto meno corposi e diretti che da noi.
In Italia è entrato in crisi, quasi fino al punto di consunzione, la forma dello Stato, inteso sia come pubblica amministrazione sia come equilibrio complessivo dei rapporti tra i poteri.
Da qui, a mio avviso, le enormi difficoltà di ritrovare e riannodare i fili; da qui la sensazione di una transizione ancora molto lunga, la difficoltà di costruire, gli innumerevoli esperimenti che si vanno discutendo e “forse” preparando.

La crisi delle culture politiche
Il fatto che non c’è più pensiero e vera discussione critica, mette in evidenza tutto questo in maniera ancora più clamorosa. Questo è il punto: il venire meno delle forme dentro le quali una storia si svolge. La destrutturazione ha messo in ginocchio molte cose. Quando dico crisi delle culture politiche intendo una cosa molto profonda, non le culture in senso accademico. Intendo quel nodo complicato, quell’intreccio in cui ci sono società civile, sistemi, forze politiche, partiti.
Quindi non ci deve sorprendere la profondità della crisi, né la lunghezza dei suoi tempi.

Ancora su Tangentopoli
Vorrei aggiungere ancora una battuta su “tangentopoli”, riprendendo un tema già introdotto da Moretti.
Io non solo non nego che tangentopoli ha avuto un effetto, ma affermo che tangentopoli non è meccanicamente l’effetto dell’89.
Probabilmente l’89 libera una magistratura che in qualche modo era pressocchè tutta dentro il sistema, e la fa emergere come un potere corporativo fortissimo, come uno dei più grandi soggetti politici in campo.
Tangentopoli è, la definirei così, una rottura dei rapporti fra i poteri, una rottura dei vecchi equilibri esistenti fra i vari poteri dello Stato. Non esiste vuoto nella storia del potere, ed è evidente che se si ritirano alcuni poteri altri occupano lo spazio che si trovano davanti. In questo caso la magistratura, il potere giudiziario ha occupato tutto lo spazio che il potere politico ha abbandonato. E di fronte a quel vuoto totale, l’invadenza del potere inquisitorio diventa – lasciamo stare se bene, male, giusto, non giusto – debordante.

E sulla Lega
Sul terreno politico non è certo un caso che il primo elemento che segnala la crisi del sistema è rappresento dalla Lega Nord.
La Lega nella sua forma forte, cioè la forma “repubblica del Nord”, la forma secessionista. Sembra localismo, e poi diventa invece un fatto primario.
Al di là dei numeri, la Lega gioca un ruolo essenziale nella crisi italiana, anche perché Bossi bene o male la tiene intelligentemente sul fronte su cui è nata.
In Italia è avvenuto che la prima forma di risposta alla destrutturazione del sistema politico è stata di tipo secessionista. E questo pone il problema della questione nazionale.

La questione costituzionale
Vorrei fare ancora un’osservazione. Penso anch’io che la scelta dell’assemblea costituente presenti più rischi che vantaggi.
Personalmente insisto sul fatto che la profondità della crisi istituzionale in Italia è delle dimensioni che è perché ha messo in discussione i grandi soggetti politici che erano i soggetti della decisione. Ciò non è avvenuto altrove. Che cos’è una questione costituzionale? Io la stringerei intorno a questa domanda: chi decide che cosa. La costituzione è questo. Il rapporto tra il potere e le decisioni. “Chi decide che cosa” nel complicato rapporto tra costituzione formale e costituzione materiale; fra presenza dei partiti e rapporto tra partiti, parlamento e governo: tutto questo in Italia è entrato radicalmente in fase di destrutturazione.
Basterebbe citare la caduta dei partiti tradizionali che sono stati il tessuto dell’organizzazione della costituzione materiale italiana. Donde nasce la domanda: i “nuovi” partiti che si vanno formando in che modo riusciranno a conservare il loro ruolo nella costituzione materiale dell’Italia? In che misura ci sarà qui un cambiamento sostanziale? Già si intravedono forti volontà di conservazione.
Quindi la profondità della crisi istituzionale italiana e la sua coincidenza con la crisi del sistema politico, sta nel fatto che tutto il sistema dei rapporti tra poteri e forze politiche, governo, parlamento e partiti, si è destrutturato. E questo ci fa tornare sul vuoto che si è determinato, sul fatto che camminiamo in un immenso magma rispetto al quale diventa difficile trovare le soluzioni. Da qui, la lunghezza della crisi italiana. Da qui, una transizione che sarà probabilmente ancora molto lunga e complessa.

Vincenzo Moretti

I poteri forti
Vorrei tornare sul rapporto tra economia e politica visto dal versante nazionale, che è un versante per noi, per ovvie ragioni, assai degno d’attenzione.
Giulio Sapelli, in un bel libro intitolato “Cleptocrazia, il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica” ha definito il capitalismo italiano “prodotto storico di un capitalismo familistico amorale e collusivo con la balcanizzazione della pubblica amministrazione, nell’assenza di solide istituzioni politiche e di mercato, nell’emergere impetuoso di nuove particolaristiche classi politiche”. E sugli stessi temi si sono cimentati in tanti, magistrati come Paolo Mancuso, studiosi come Roberto Esposito, personalità come Massimo Cacciari.
Eppure, sperando che Giuseppe Verdi non si rivolti nella tomba, verrebbe da dire che “l’impresa è immobile, qual che sia il vento”.
La dinastia degli Agnelli ha percorso senza scosse la storia e la politica di questo secolo; Berlusconi, “nato” imprenditore edile, ha costruito, con l’aiuto di un Presidente del Consiglio di nome Craxi, un impero mediatico e finanziario ed è diventato, per un numero molto consistente di italiani, l’uomo della speranza; Cuccia sta lì, emblema di un potere economico immutabile, eterno.
Poi, certo, ciascuno di loro e tanti altri con loro hanno vissuto e stanno vivendo giornate amare. Ma una critica e una riflessione approfondita sui caratteri del capitalismo italiano non c’è, o almeno non emerge.
Questi “poteri forti” nel nostro Paese sono dunque talmente forti da essere intoccabili? E sono effettivamente destinati a navigare oltre le colonne d’Ercole della crisi senza mettersi ed essere messi in discussione?

Riccardo Terzi

L’impresa che cambia
Vorrei fare un osservazione sulle cose che diceva Moretti. Se guardiamo ai rapporti tra il sistema politico e il sistema delle imprese non è vero che le cose sono rimaste ferme.
Oggi il sistema delle imprese non è più soltanto Agnelli, Cuccia, Pirelli.
Tradizionalmente le grandi famiglie del capitalismo italiano avevano un rapporto organico con i partiti di governo, avevano una propria capacità di influenza, senza intervenire in prima persona nell’agone politico. Vi fu il tentativo di Umberto Agnelli, ma abortì rapidamente.
In generale c’era una sorta di delega fiduciaria al sistema politico in cambio del sostegno al sistema dell’impresa e di una organizzata politica di favori.
Ciò che è avvenuto in questi anni modifica le gerarchie del capitalismo e trasforma profondamente la stessa composizione della Confindustria. Non c’è più soltanto la Fiat, non ci sono più soltanto le grandi imprese, ma c’è un nuovo protagonismo di tutta la rete delle piccole imprese ed un’articolazione, una dialettica interna al mondo delle imprese molto più vivace di prima.
Non a caso il nuovo presidente della Confindustria è Fossa, rappresentativo di questa realtà delle piccole imprese.
E, contemporaneamente, viene meno il rapporto fiduciario con i politici.
Alle spalle del fenomeno Lega della prima ora e, successivamente, del fenomeno Forza Italia, c’è questa rottura rispetto al sistema politico tradizionale, soprattutto da parte di questa rete di piccole imprese.
Berlusconi, pur essendo un potere forte, riesce a collegarsi con questo humus e, con uno strappo alla prassi precedente, si propone direttamente come protagonista politico.
Certamente tutto questo andrebbe analizzato più a fondo, ma non mi convince molto una rappresentazione nella quale il sistema politico si è mosso ed è entrato in crisi, mentre quello delle imprese è rimasto sostanzialmente fermo.

Biagio De Giovanni

La modernizzazione ineguale
L’osservazione di Moretti a me sembra molto interessante e vorrei provare a metterne in luce l’elemento di verità, non so se collegato immediatamente alla fenomenologia attuale, ma relativo a un dato abbastanza significativo della storia italiana di questo cinquantennio. Mi riferisco al rapporto molto forte, di cui c’è stato svelato il gioco di intrecci e perfino la degenerazione, che tradizionalmente c’è stato tra politica e impresa e che, qui concordo con Terzi, oggi sta cambiando. In che maniera ciò sta avvenendo? In che forma si è modernizzata la società italiana? Mi sembra questo l’aspetto più interessante del problema.
Credo che si possa tranquillamente affermare che nel nostro Paese il processo di modernizzazione ha camminato su gambe differenziate, che c’è stato uno squilibrio tra la dimensione economico imprenditoriale e quella partitico politica, che andrebbe approfondito e meglio valutato, e che ha generato non pochi scompensi.

La pubblica amministrazione
Vogliamo fare un esempio?
La modernizzazione italiana non ha interessato la pubblica amministrazione e ciò ha rappresentato un vincolo certo non indifferente rispetto ai suoi esiti. La mancata modernizzazione della Pubblica amministrazione si è tradotta infatti in una discrasia tra modernizzazione politica in senso lato e modernizzazione economica.
Si potrebbero fare altri esempi ma ciò che mi interessa di più sottolineare è invece, su un terreno politico più attuale, la questione del consenso.

Il capitalismo tradizionale
C’è un capitalismo storico italiano che sta giocando una partita tutta interna al tentativo di creare le condizioni per il ritorno ad un assetto tradizionale della politica italiana, che sta tentando, insomma, di riallacciare i fili di una storia che tutto sommato gli andava anche bene. Io l’ho sempre vissuta così, da quando Agnelli ha sostenuto sostanzialmente il centrosinistra, perfino durante la gestione Occhetto, più “movimentista” e dunque più aperta a soluzioni impreviste.
Si può perciò spiegare perché c’è tutta una sezione del capitalismo finanziario, del capitalismo soprattutto produttivo che continua, e secondo me continuerà a scegliere, l’Ulivo.
E non è un caso che sia Prodi il punto di unificazione. Egli è stato un interprete di primo piano di quel capitalismo pubblico che ha avuto sempre una forte attenzione verso i grandi centri di potere.

E il capitalismo invadente
All’opposto c’è un capitalismo selvaggio, nuovo, invadente, che fa direttamente politica, che non rispetta più le differenze, in questo senso è iconoclasta, che rompe i precedenti equilibri fra impresa e politica, che si sta schierando dall’altra parte, anche se problematicamente, perché Berlusconi è un personaggio talmente “violento” e ambiguo nella sua fisionomia complessiva, che pone problemi anche a loro.
Ma se Berlusconi avesse saputo gestire meglio questa sua fisionomia, avrebbe potuto giocare una partita ben più sottile e complicata. Ma quanto contano in questo le insufficienze culturali!
Mi rendo conto di aver tagliato le questioni troppo di netto, ma nel rapporto tra capitalismo tradizionale e capitalismo “invadente” c’è una questione forte che riassume oggi i problemi della concentrazione di potere e entra nel problema della democrazia.

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