C’era una volta un Paese

Rosario Strazzullo

La crescita senza modernizzazione
Trovo assai interessante quest’ultima parte del discorso. In qualche modo a mio avviso essa ripropone molti problemi dello sviluppo italiano, della crescita senza modernizzazione che ha caratterizzato il nostro Paese.
Abbiamo poche grandi imprese che realmente competono a livello internazionale mentre il vasto pianeta rappresentato dalle piccole imprese è stato per troppo tempo sottovalutato.
Come avete ripetutamente sottolineato, il 1989 rappresenta uno spartiacque.
Ma insisto. Tutto quanto ha preceduto questa data non è ininfluente sulle caratteristiche che assumerà la fase di ricostruzione, sul come si esce dalla transizione.

C’era una volta un Paese
Questo è un Paese che non sta più insieme da molto prima dell’89. Se devo fare un paragone, penso al bellissimo film di Kusturica, “Underground. C’era una volta un paese”.
La sensazione è che l’Italia sia una sorta di Iugoslavia non violenta, almeno per ora, in cui c’è un processo strisciante di rottura che le culture politiche, quelle tradizionali e quelle nuove, da tempo non sono più in grado di arginare.
Attorno a questo punto si potrebbe sviluppare ulteriormente il ragionamento, già altrove affrontato da De Giovanni, attorno al rapporto tra crisi del meridionalismo e crisi dell’unità nazionale.

Biagio De Giovanni

La questione meridionale
L’Italia ha avuto permanentemente nella sua storia elementi di grandi difficoltà e la questione meridionale ne è uno degli esempi più emblematici.
Non esiste un’altra questione meridionale con gli stessi tratti in nessun altro paese d’Europa. E soprattutto non è mai esistita, anche in quei Paesi in cui comunque ci sono differenziazioni e dualismi, una cultura politica come quella che in Italia ha dato vita, dall’unità nazionale in poi, al meridionalismo.
In Italia la vicenda nord sud ha assunto caratteri così forti e peculiari da condizionare il dibattito sull’unità nazionale e le forme della discussione politica.

Una nazione difficile
Strazzullo ha posto una questione importante. Che io però non riassumerei nella forma drastica “non riusciamo a stare insieme” ma la collocherei nella sua dimensione storico politica, per capire quali sono nella storia d’Italia le ragioni che hanno fatto di questa una nazione difficile, una nazione nella quale lo stare insieme, le forme dello stare insieme nei momenti critici vengono radicalizzate all’interno di culture politiche e messe in discussione.

Le culture e la mancata coesione del Paese
La crisi del meridionalismo è la crisi di una cultura politica che ha aiutato a tenere insieme l’Italia, che ha aiutato a pensare alla questione meridionale come questione nazionale. A parte alcune forme di meridionalismo secessionista (perfino Salvemini lo era in qualche misura) il meridionalismo classico, da Villari a Gramsci, è una cultura che ha tentato di pensare l’Italia e di pensare la questione meridionale come una questione nazionale. La crisi del meridionalismo non a caso viene fuori nel momento in cui emergono culture secessioniste.
Pur senza stabilire riflessi e condizionamenti meccanici tra queste due cose, sta di fatto che viviamo anni nei quali la crisi del meridionalismo coincide con la crisi di quelle culture che hanno aiutato a pensare l’Italia, a pensare cioè il nesso nord sud e a pensare il Mezzogiorno come questione nazionale.
Nel momento in cui le culture del meridionalismo crollano, non a caso, secondo me, emergono forme di coscienza “nazionale” che propongono un altro tipo di analisi e un altro modo di affrontare questo nodo essenziale della questione italiana.

Riccardo Terzi

Il ruolo della Lega
Vorrei affrontare questa questione ritornando sul fenomeno Lega.
Si è detto che la Lega appare una prima risposta, inquietante, alla crisi politica. E che di tale fenomeno, della sua importanza, c’è stata una generale sottovalutazione.
Ricordo che a Milano, qualche anno fa, la CGIL lombarda fece, partendo dai risultati di una ricerca, un primo tentativo di analisi. Per conto della CGIL nazionale intervenne Ottaviano Del Turco che affermò che la Lega era un fenomeno folcloristico destinato ad un rapido declino. Oggi sappiamo invece come è andata per la Lega, e per il partito socialista. Ma al di là dell’episodio, credo si debba riconoscere che c’è stata una generale difficoltà a capire.
Proviamo dunque a chiederci cosa c’è dietro il fenomeno Lega.
A mio avviso c’è sicuramente una parte di società settentrionale che sta vivendo un processo di sradicamento, che è come spaesata, che fa fatica a reggere il ritmo della modernizzazione e della competizione internazionale e quindi si rifugia nel mito, nella ricerca dell’identità perduta.
Da qui il ritorno al folclore, al dialetto, al localismo; il rimpianto di un equilibrio sociale che si è rotto, la ricerca di una comunità. Sono quelle che alcuni sociologi chiamano “aree tristi”, aree non particolarmente sviluppate, che sentono messo in pericolo il loro equilibrio.
Poi ci sono i ceti rampanti, quelli che hanno assunto iniziative imprenditoriali anche molto spregiudicate, che vogliono affermarsi in prima persona e sentono il vecchio Stato come uno Stato che li soffoca con il peso fiscale e con una macchina amministrativa eccessivamente rigida. Siamo di fronte, in questo secondo caso, a soggetti che mettono in campo aspirazioni ed iniziative secondo modelli molto individualistici. E non a caso in una fase successiva questa seconda area si sposta in gran parte dalla Lega a Forza Italia.
I ceti rampanti, infatti, non sono tanto interessati al recupero dell’autonomia lombarda o all’autonomia del Nord, quanto a un modello di sviluppo iperliberista e di smantellamento dello Stato.
Per gli uni e per gli altri il disegno politico della Lega ha finito per rappresentare un punto di riferimento.

Biagio De Giovanni

Una difficile separazione
Questa è la ragione per la quale poi in realtà la separazione tra Lega e Forza Italia è più difficile di quel che sembra.

Riccardo Terzi

Le comuni radici
Si, tra Lega e Forza Italia c’è conflitto, ma anche radici comuni.
Nel momento in cui è entrato in crisi il sistema politico, la spinta autonomistica del Nord è diventata molto forte, fino al limite del separatismo. Intendiamoci, nel Nord c’è sempre stata una rivendicazione di autonomia e la convinzione di un primato, di un ruolo egemone, sintetizzata dall’idea di Milano capitale morale ed economica. Periodicamente questa spinta, questa rivendicazione di primato del Nord contro Roma capitale del politicismo corrotto, ritorna.
Nel momento in cui salta il sistema politico, tale spinta, prima sotterranea, viene alla luce con molta forza.
In questa situazione non c’è dubbio che occorre riaffermare il bisogno di coesione nazionale.
Come si rimette insieme una nazione
La mia opinione è che però non faremo nessun passo avanti se ci limitiamo a una sorta di difesa retorica della Nazione, un po’ alla Scalfaro. Le grandi prediche non servono a nulla e quando si risponde alla Lega su questo terreno gli effetti sono controproducenti.
Secondo me, dobbiamo ragionare su come si rimette insieme la nazione attorno ad una linea che risponda anche ad alcune esigenze reali che la Lega ha sollevato, in particolare per ciò che riguarda una maggiore autonomia per le diverse realtà territoriali.
L’Italia è di per sè una nazione molto particolare, fatta di molte differenze. Per questo io dico che una ricerca sul tema del federalismo ci aiuta, non a rompere, a disgregare l’unità nazionale, ma a rimetterla in piedi su basi più solide.

Il federalismo

Se riconosciamo che non funziona più un modello tutto centralistico di direzione e di governo, e se non vogliamo che queste spinte separatiste diventino davvero molto forti e incontrollabili, bisogna trovare un nuovo modello di funzionamento dello Stato che riconosca livelli ampi di autonomia, di autogoverno, ed un nuovo equilibrio tra poteri centrali e poteri locali.
Devo dire che in parte questa consapevolezza si è affermata. Anche a sinistra. C’è stata una evoluzione, cominciano ad esserci delle ricerche e degli studi seri su questo aspetto.
E’ questo il tema principale da affrontare in un disegno di riforma delle istituzioni. Non serve a nulla garantire maggiore forza, maggiore stabilità al governo centrale, se nel contempo non si riequilibrano i poteri nel rapporto tra stato centrale e autonomie locali.
Come si rimette insieme una nazione? Può essere questo il tema, la domanda da cui può venire la risposta per uscire dalla transizione. E’ il tema politico-istituzionale del ruolo degli Stati nazionali nel rapporto con il processo di globalizzazione.

Vincenzo Moretti

La democrazia incompiuta
Vorrei fare qualche considerazione ulteriore ritornando su una questione che abbiamo già affrontato nel corso di un seminario a Vico Equense: la democrazia incompiuta.
E vorrei dire che di cose compiute in questo Paese, anche guardando a un po’ di anni addietro, se ne vedono poche, in particolare nel campo della politica. Mentre si abbonda in cose affastellate, inutilmente complicate, bizantine al punto che un termine come “inciucio” può far parte del lessico politico corrente.
Prendiamo un tema come la solidarietà, di cui si fa un gran uso nel dibattito su meridionalismo, federalismo, unità della nazione.

Dalla solidarietà apparente al dominio degli interessi
Ebbene, dalla mia esperienza di dirigente sindacale credo di poter desumere che perfino nelle fasi nelle quali c’è stata una effettiva solidarietà nei confronti del Sud, essa si è retta sul terreno degli affetti, delle ideologie politiche, anche dei valori condivisi, senza però mai riuscire ad aggredire il terreno degli interessi. La crisi della politica ha in qualche modo, uso volutamente un’espressione forte, liberato i rozzismi, gli spiriti animali, cosicchè la spinta alla mera rappresentazione degli interessi ha come perso ogni freno inibitorio. Ma tra le due fasi c’è, a mio avviso, un legame meno esile di quanto comunemente si è portati a immaginare.

Perchè il federalismo
Personalmente, guardo alla riorganizzazione dello Stato in senso federalista come una risposta utile e giusta alla crisi dell’unità nazionale. Non vedo molte altre possibilità, strade migliori o più efficaci per migliorare i rapporti tra Nord e Sud, per giungere ad un nuovo patto, un nuovo assetto istituzionale del Paese.
Da questo punto di vista, così come credo ad una Germania forte solo nell’ambito di un’Europa unita, ritengo che coloro che immaginano un Nord forte ed un Sud che sta fuori dall’Europa commettano un grave errore di valutazione.
Ancora una volta si può portare ad esempio ciò che sta avvenendo in settori importanti della nuova economia.

La rete
Quello che oggi viene ritenuto l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, ha costruito il proprio successo sul terreno delle relazioni. Egli è riuscito ad aumentare enormemente affari e profitti perché ha compreso l’importanza di non crescere nel deserto, di favorire in qualche modo la crescita dell’intero sistema produttivo.
Autonomia. Integrazione. Cooperazione. Saranno queste a mio avviso le idee e le scelte vincenti del futuro prossimo.

Ripensare l’unità della Nazione
Per tornare al nostro ragionamento, credo che dovremmo ripensare criticamente il concetto di unità nazionale così come lo abbiamo vissuto negli anni che abbiamo alle spalle.
Lo ripeto: la coesione è stata molto forte quando non intaccava il “nocciolo duro” degli interessi. Quando ciò non è stato più possibile, per le trasformazioni dell’economia avvenute a livello mondiale e per la crisi dello stato sociale a livello delle singole nazioni, si sono aperti molti e consistenti problemi.
La ricerca che ci deve portare alla ridefinizione di un’ipotesi di coesione nazionale, non può che partire da una proposta che si muova su questo doppio binario: civiltà e interessi.
Lo sento come un tema forte.

Quale globalizzazione
La stessa globalizzazione non può essere affrontata soltanto dal versante dei processi economici, ma deve esserlo anche dal punto di vista delle politiche sociali, di un idea nuova di civiltà, di un idea nuova di relazioni in Europa, tra area del Mediterraneo ed Europa, tra Europa e resto del mondo.
Sono temi che non di rado sono presenti nelle nostre discussioni. E che però non producono iniziativa politica.
Se la politica deve riconquistare un ruolo rispetto all’economia, non deve partire anche da queste cose? E dentro queste cose ci può stare una nuova idea forza di nazione e di nazioni in Europa?
Un doppio movimento
Terzi ha introdotto il concetto che a me piace molto di “doppio movimento”. Un movimento che sposta la nazione, lo Stato, verso l’Europa, e che quindi richiede un governo dei processi di dimensione europea. E un movimento che sposta lo Stato verso il basso, verso i poteri locali, i poteri decentrati, e dunque verso la responsabilità.
Qui vedo la possibilità di indicare idee forza, di indicare programmi, di indicare soluzioni, perché altrimenti, per usare un’espressione molto efficace che altre volte ho sentito da De Giovanni, la “nuova politica” su quali gambe la facciamo camminare?

Riccardo Terzi

La DC e il PCI
Prima di vedere quali sono le risposte politiche, le idee forza, con le quali affrontare la transizione, forse dobbiamo ancora soffermarci su qualche elemento d’analisi.
Come diceva Moretti, la presenza di un sistema politico molto forte, e di forti identità collettive, rappresentava una specie di antidoto contro il pericolo di essere guidati soltanto da interessi immediati, corporativi.
La capacità di esprimere una coesione che metteva insieme interessi diversi era una caratteristica sia della Democrazia Cristiana che del Partito Comunista.
La Democrazia Cristiana era sicuramente interclassista, il Partito Comunista che pure si definiva partito di classe, in realtà ha sempre rifiutato l’operaismo e ha sempre guardato con grande attenzione ai ceti medi, proponendosi come grande forza nazionale.
Nel momento in cui c’è la crisi delle strutture politiche, delle ideologie, c’è il rischio che si perda ogni capacità di condizionamento e di freno, e che l’unico orizzonte possibile diventi quello dell’interesse corporativo immediato.

La politica senza solidarietà
E’ in larga parte ciò che è avvenuto in Italia. Ne parlavo prima riferendomi alle radici della Lega: ci sono pezzi di Paese che non riconoscono più l’equilibrio nazionale nè, tantomeno, il bisogno di essere solidali con il Sud.
Vengono meno i vincoli della solidarietà sociale, e si determinano processi di tipo disgregativo estremamente rischiosi.
Mentre i partiti diventano sempre più marginali, l’unica forza che cerca di fare società, di fare solidarietà, oggi è la Chiesa, che non a caso resta un punto saldo anche sul terreno della difesa degli immigrati. Dal punto di vista sociale, il ruolo della Chiesa e delle sue organizzazioni collaterali è oggi di straordinaria importanza, perché riesce a mettere in campo un’attività diffusa e concreta di solidarietà, di accoglienza, di protezione sociale. Ciò agisce come contrappeso rispetto alle tendenze di fondo dell società competitiva. Il sistema politico sembra invece muoversi a rimorchio dell’esistente, in balia degli interessi organizzati, e fa sempre più fatica a tenere insieme interessi diversi, a produrre una sintesi, a progettare un modello di società.

Una strategia per la transizione
La transizione sarà lunga, sono perfettamente d’accordo con De Giovanni: è così profonda la crisi della cultura politica e del sistema politico-istituzionale che non è assolutamente pensabile che da essa si possa uscire rapidamente.
Per ricostruire un equilibrio sociale, una coesione nazionale che oggi è seriamente messa in crisi, dobbiamo darci una strategia capace di reggere i tempi lunghi.
Proviamo allora a vedere questa strategia di lungo periodo in che cosa consiste, e quali sono le principali iniziative da mettere in atto.

Le tante cose da fare
Una delle cose che ritengo importanti e su cui vorrei tornare è il tema del federalismo: come ricostruire su basi diverse l’unità nazionale e come mettere mano al funzionamento concreto dello Stato, ai meccanismi di distribuzione del potere, alla riorganizzazione della pubblica amministrazione.
Il rischio è, in alternativa a questa operazione faticosa e necessaria di intervento concreto sulle cose, prevalga la risposta puramente simbolica: il presidenzialismo, l’Assemblea Costituente, lo stesso federalismo nella sua versione agitatoria e mitologica. C’è il rischio della retorica, del predominio delle parole sulle cose.
Personalmente non credo che ci siano risposte miracolistiche e ritengo molto pericoloso alimentare illusioni di questo tipo. Con ciò si alimentano aspettative messianiche, e inevitabilmente ne deriva un contraccolpo gravissimo nel rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini.
Le cose a cui mettere mano sono tante e non poco complicate, riguardano la coesione nazionale, gli equilibri sociali, il funzionamento concreto dello Stato. Dobbiamo darci un programma che affronti complessivamente questi temi.

Biagio De Giovanni

Oltre i confini
Si stanno forse accavallando troppi temi e bisogna ritrovare un po’ di ordine nella discussione. Ho l’impressione che molti problrmi non possano essere affrontati mantenendola in un ambito solamente nazionale.
Riprendendo il discorso che faceva Moretti all’inizio anche a me interessa molto approfondire una questione precisa, da cui peraltro siamo partiti: qual è oggi il rapporto tra economia e politica. Credo che dobbiamo provare a farlo nel solo modo utile in una sede come questa, guardando agli sconvolgimenti che stanno avvenendo nel mondo.

La crisi della politica?
La politica non riesce più a governare i processi reali. Quando Moretti sostiene che la crisi della politica, che coincide con la crisi degli stati sociali, ci consegna la liberazione degli spiriti animali nel mondo degli interessi, dice una cosa molto vera.
Contemporaneamente però occorre dare determinatezza storica a questa crisi della politica, perchè altrimenti rischia di diventare la crisi di una categoria dello spirito.
La politica non è mai in crisi, perché anche questa immediatezza degli interessi è politica.
Non è un caso che essa richiami le politiche anti-deficit e le politiche di stabilità, quelle politiche che gli Stati sociali mettevano in secondo piano non per dimenticanza, ma perché il deficit pubblico faceva parte organicamente delle loro strategie e che invece ridiventano di difficile realizzazione nel momento in cui gli stati sociali, per le ragioni che sappiamo (globalizzazione e tutto il resto), entrano in crisi.

La crisi degli stati sociali
Quindi più che di crisi della politica, parlerei di crisi degli stati sociali ovvero della forma nella quale la politica democratica, in maniera storicamente determinata, si è affermata in Europa negli ultimi cinquanta anni. Dentro questa crisi della politica c’è la crisi della qualità della democrazia europea, o per meglio dire delle forme storicamente determinate della democrazia europea.

Le nuove forme di regressione sociale
Certamente, questa separazione tra economia e politica, di cui si parlava, questa “liberazione” degli interessi pone la necessità di ritrovare un nuovo livello di mediazione. Essa sta infatti determinando in tutto il mondo, o almeno sia in America sia in Europa, nuove forme di regressione sociale, cioè nuove forme di divisione all’interno della società.
Ciò richiede un’analisi ancora tutta da fare, perché ciò che sta avvenendo non ha molto a che vedere con la vecchia analisi di classe.

Povertà e ricchezza
Siccome si è rimescolato tutto dal punto di vista delle forze sociali, anche “povertà” e “ricchezza” hanno la necessità di essere ripensate e nuovamente riorganizzate dentro un altro schema di analisi, che non può essere quello classicamente marxiano.
Lo schema della lacerazione sociale che era stato contenuto dentro un modo di intendere il rapporto tra economia e politica, tipico dei compromessi sociali europei del Novecento, è tutto davanti a noi, è tutto da ridefinire.
Questo è un punto. E questo punto non lo possiamo toccare se non affrontiamo prima globalizzazione e quindi Europa, perché tutto quello che si muove intorno a noi mostra che questo non è un tema solamente italiano.

Il tema Europa
È un tema che in Italia ha una particolare fenomenologia, ma dovunque le cose cominciano a rappresentarsi con alcune significative assonanze: basterebbe richiamare l’esempio francese, ancora abbastanza recente, e quello tedesco, in corso, per rendersi conto di come oggi le politiche anti deficit stimolino una lacerazione e una risposta sociale.
A mio avviso siamo in presenza di un problema straordinariamente complicato, e cioè come si risponde al problema della spesa pubblica e del connesso deficit pubblico in una situazione post stato sociale. Non è un tema da poco. E’ un filone che richiede una riflessione sui temi internazionali e sul tema Europa. Senza non ne usciamo.

Coesione e Stato nazionale
L’altro filone naturalmente è per definizione nazionale, perché quando parliamo di coesione nazionale parliamo di stato nazionale. E questo è un filone che possiamo anche discutere separatamente, sia pure mantenendo l’opportuno equilibrio con l’altro. L’importante è evitare l’accavallarsi di due temi che nella loro unità e nel loro rapporto vanno comunque tenuti distinti.
Sulla questione nazionale io voglio limitarmi per ora semplicemente ad aggiungere una riflessione, relativa al federalismo.

Ancora sul federalismo
Sia ben chiaro che non ho una pregiudiziale antifederalista. Mi limito a fare alcuni rilievi.
Il primo rilievo è ancora una volta storicamente determinato, perché per formazione amo discutere in questo modo.
Il federalismo nella storia d’Italia è sempre intervenuto in forma secessionista.
Quando Terzi giustamente richiama con molta forza la questione Lega, mi trova del tutto d’accordo.

La Lega e la nuova destra
Io continuo a ritenere che la Lega sia uno dei veri fatti nuovi della situazione post anni novanta, quando è esploso come fatto politico generale; rimango anche convinto, senza entrare nel campo delle previsioni, che essa è morfologicamente legata alla nuova destra italiana. Forse c’è la tendenza a rimuovere tutto questo perché si è avuta la sensazione che potesse accettare un accordo con l’Ulivo. Ma in realtà la situazione è un po’ più complessa.
Ritorniamo al punto, e ragioniamo sul perché il federalismo compare nella storia nazionale in forma sostanzialmente secessionista sia nel momento in cui si fa l’unità d’Italia, dal progetto Minghetti in poi, sia nella fase attuale, sempre nella forma di lacerazione e incompatibilità tra nord e sud.

Il tema dello Stato
La pubblica amministrazione è il luogo storico in cui l’accumularsi di Stato sociale e mediazione di grandi partiti di massa, ha prodotto i problemi ben noti. Da questo punto di vista non ho alcuna difficoltà a riconoscere che oggi il tema dello Stato non si può risolvere senza il tema delle autonomie.
Questo è ancora una volta un tema costituzionale. Chi decide che cosa? Il problema della Costituzione è questo. C’è quindi una doppia questione: come si ridistribuiscono i poteri e le responsabilità.

Come stare assieme?
Se ci poniamo però il problema del come stiamo insieme, non possiamo dire, non lo consente la cultura politica italiana, per quello che le parole hanno significato e possono significare, che la soluzione sia, senza aggettivi, il federalismo.
Perché è storicamente difficile innescare questa parola nella storia d’Italia senza immediatamente ottenere risonanze di tipo separatista.

L’importanza del lessico
Queste cose contano, perché il lessico non può essere soggetto a tatticismi nè lo si può inventare giorno per giorno.
Personalmente ritengo che il lessico fa parte delle strategie e che dobbiamo stare attenti a come usiamo le parole se non vogliamo che ognuno attribuisca diversi significati alle stesse cose o chiami nello stesso modo cose diverse.

Unità e distinzione
Entriamo ora nel merito delle forme nelle quali dobbiamo immaginare questo rapporto tra autonomia e unità, perché nello stesso tempo in cui rinsaldiamo l’autonomia, dobbiamo rinsaldare l’unità. Se ci limitassimo infatti a rinsaldare le autonomie, non risponderemmo al tema che abbiamo davanti e cioè come stiamo insieme, perché stare insieme è unità e distinzione, come ha detto Terzi in un’altra occasione.

Il movimento della realtà
Io la vedo in termini filosofici, lui lo dice in termini politici. Unità e distinzione, me lo insegnava Croce quando ero “guaglione”, è questo il movimento della realtà.
Sono i due nodi che vedo distinti.
Il nodo economia politica come effetto della globalizzazione e quindi come tema che ci porta immediatamente a parlare del rapporto Italia-Europa e del rapporto Europa-Mondo.
E come riorganizzare il rapporto tra unità e distinzione senza qualificarlo ideologicamente in una forma che poi può significare cento cose diverse. E’ il tema nazionale che ha forti ricadute sul terreno costituzionale.

Riccardo Terzi

L’equilibrio tra unità e distinzione
Sulla questione del federalismo vorrei dire, in particolare a De Giovanni, che se assumiamo come base della discussione la necessità di trovare un punto di equilibrio tra unità e distinzione, tra coesione nazionale e sviluppo dei sistemi e delle autonomie territoriali, probabilmente le differenze tra di noi non sono così marcate.
Io credo però che sia utile e corretto parlare di federalismo e non soltanto di sistema di autonomie.

I limiti delle autonomie
In primo luogo perché abbiamo già alle spalle una storia di autonomie locali, di autonomie regionali, che non ha dato fin qui risposte e risultati sufficienti. Andare oltre, non limitarsi a riconfermare il valore delle autonomie locali così come storicamente si sono organizzate in Italia fino ad oggi, vuol dire essere consapevoli della necessità di fare un salto, di introdurre una modifica profonda nel corso delle cose. Il termine “federalismo” indica appunto questa necessità di una rottura e di un rinnovamento profondo nell’ordinamento dello stato.

Alcuni cenni storici
E’ vero. Il federalismo nella storia italiana ha avuto i connotati che ricordava De Giovanni. Ma perchè è sempre stato un movimento molto minoritario, ed i movimenti minoritari tendono a radicalizzarsi.
Nella Costituente prevalse giustamente una linea di prudenza, perché in quel momento sembrava rischioso fare un’operazione di riforma istituzionale basata su un regionalismo forte: l’Italia usciva a pezzi dalla guerra ed era necessario in primo luogo ricostruire l’unità nazionale.
Oggi tale prudenza non ha più ragione di essere. E’ all’inverso il mantenere questo modello centralizzato di Stato che rischia di alimentare le spinte disgreganti, le spinte secessioniste già molto forti in alcune aree del Nord.

Cercare nuove soluzioni
Ricercare una soluzione del problema che rappresenti effettivamente un salto di qualità rispetto all’esperienza passata vuol dire fare delle Regioni una cosa completamente nuova rispetto a quello che sono state fino ad oggi. Ed in questo quadro i modelli, per quanto possano valere, sono gli stati di tipo federale. Guardo ad esempio all’esperienza tedesca e trovo lì una soluzione che può essere un punto di riferimento anche per noi.

L’esempio tedesco
Nel modello federale tedesco l’amministrazione, anche per le materie che sono regolate da leggi nazionali, è completamente decentrata al livello dei Lander, tranne che per poche ed eccezionali funzioni, come ad esempio la difesa nazionale. Ciò comporta una riorganizzazione totale di tutta la macchina amministrativa e rappresenta perciò un’occasione privilegiata per ricostruire su nuove basi e con nuovi criteri di efficienza le strutture dell’amministrazione pubblica.
Inoltre, un punto chiave della riforma dello Stato è la trasformazione dell’attuale sistema parlamentare con l’istituzione di una Camera delle Regioni, sul modello del Bundesrat tedesco. La seconda camera dovrebbe essere, in questa logica, una espressione diretta dei governi regionali, diventando così la sede in cui si coordinano le politiche nazionali e le politiche regionali.

Una riforma di impronta federalista
Per fare tutto questo è chiaro che c’è bisogno di una riforma costituzionale. E se concordiamo sulla necessità di avviare un’operazione di questo tipo, parlare di federalismo mi pare sia corretto, perché gli Stati organizzati in questo modo si chiamano stati federali.

Ancora sul federalismo tedesco
Essi possono avere livelli di autonomia anche molto differenziati: in Germania, ad esempio, il sistema federale convive con un governo centrale forte. Non a caso mi è capitato di discutere di queste cose con un esponente della Lega e mi sono sentito dire che la Germania ha un federalismo finto e che quel tipo di modello non va bene. La Lega propone infatti una cosa diversa: una forma di vera e propria indipendenza del Nord, con un legame statale debolissimo e con il diritto alla secessione.

Perchè parlare di federalismo
Non vorrei alla fine trovarmi coinvolto in una disputa puramente terminologica.
Personalmente credo che sia corretto parlare di federalismo, anche per dare il senso di una riforma che non è in linea di continuità con il regionalismo così come lo abbiamo conosciuto in tutti questi anni, ma indica un cambiamento sostanziale del modo di essere dello Stato.

Quali progetti adottare

Si tratta poi di qualificare e di specificare il modello istituzionale, perchè parlare in modo generico del federalismo può dare luogo a molti equivoci. Bisogna dire perciò qual è il progetto che vogliamo adottare.
C’è una linea di ricerca che si è andata via via precisando, con il progetto della fondazione Agnelli, con l’elaborazione delle Regioni, con gli studi sul federalismo fiscale, fino al documento dell diocesi di Milano. In tutti questi casi si parla di un federalismo unitario e solidale, che non è la rottura dello Stato, ma un modo nuovo per reimpostare la coesione nazionale. E’ a questo filone di ricerca che dobbiamo fare riferimento per definire un modello di federalismo adeguato alla situazione italiana.

Biagio De Giovanni

Regioni, Europa e Stati-Nazione
Ritengo che sia sbagliata la convinzione (non mi riferisco all’intervento di Terzi, ma a ciò che mi pare di aver colto nella prima parte dell’intervento di Moretti) che la linea di tendenza verso la quale si sta andando, ed è auspicabile che si vada, è sopranazionalità più regione, con una sorta di relativa messa tra parentesi della dimensione Stato-Nazione. Non è questa secondo me una via che l’Europa sta percorrendo. Si sta anzi incamminando sulla via opposta.
Non so se questo fatto è segno di semplice regressione e di blocco di un processo, ma non lo credo affatto.

Dove va l’Unione Europea
Sarebbe certamente utile ragionare più approfonditamente su che cosa sta accadendo nell’Unione Europea: se non vogliamo cadere nella sociologia politica o nella politologia, abbiamo necessariamente bisogno di valutare il contesto nel quale ci troviamo.
E anche da questo versante dobbiamo prestare molta attenzione al lessico, alle parole ed ai concetti che usiamo per definire determinati fatti.
Attenzione dunque a non immaginare cose che non stanno succedendo. In realtà, per una serie di ragioni che possono essere anche contingenti, non lo escludo, c’è una sorta di rinvigorimento delle identità statali in Europa. Dopo la rottura degli equilibri seguita all’89 da molte parti stanno avvenendo fenomeni di reidentificazione di varia natura, non necessariamente statali, spesso anche etnici.

Il risveglio delle Nazioni
La questione si può porre forse in questo modo: come si sta “difendendo” l’Europa dall’incalzare dei processi di globalizzazione?
Da un lato affidandosi al processo di unione, che ovviamente continua ad essere in campo, anche se in una maniera quanto mai problematica, con una tendenza al ribasso che mi fa temere molto per il futuro dell’Europa. Dall’altro, forse in un momento di estrema autodifesa, recuperando delle funzioni, degli atteggiamenti, delle culture che sono state e sono proprie degli stati nazionali.
Su questo punto relativo alla funzione degli stati nazionali sarei insomma più prudente. Può anche darsi che questo che io definisco ritorno delle nazionalità, con i problemi di reidentificazione ad esse correlati, sia un fenomeno meno profondo di quello che a me sembra.

I limiti del regionalismo
Tuttavia è una tendenza che c’è e alla quale non possiamo dare una risposta di tipo amministrativo tanto più se si tiene conto che il ruolo politico dell’Italia è in forte caduta.
Quindi se ci giocassimo la carta regionalista pura, immaginando che questo regionalismo possa poi avere come interlocutore principale una Europa sovranazionale, ci infileremmo a mio avviso in un vicolo cieco.
Poi può darsi che le forme regressive legate all’età di ciascuno di noi, che fanno riemergere le culture antiche mentre tutte quelle acquisite nell’età di mezzo si accorciano, mi stiano portando a ragionare come quei vecchi che si ricordano solo delle cose dell’infanzia. Ma io considero questo un passaggio sul quale riflettere a fondo.

Vincenzo Moretti

L’occasione federalista
Proprio perché tu, con ragione, ti soffermi sulla necessità di lasciare la politologia fuori dalla porta e di attenersi alla valutazione del fatto storico, vorrei chiederti cosa pensi dell’esempio storicamente determinato della Germania, che a mio avviso dimostra la possibilità di avere contemporaneamente uno Stato che si può definire, perché è tale, federalista, e che contemporaneamente ha un senso della nazione certamente più forte e radicato del nostro.

Biagio De Giovanni

Fare i conti con la Storia
La storia conta e le cose non ce le possiamo inventare volta per volta. Noi viviamo in un contesto completamente differente dalla Germania.
La Germania è un Paese sul quale bisognerebbe ragionare a fondo. Per certi versi rappresenta il problema centrale che oggi abbiamo di fronte in Europa. Ma forse arriveremo più avanti a parlare di questioni come l’Europa, Maastricht e così via.
Ribadisco il concetto: attenzione a non immaginare che i processi statali stiano defluendo da un lato verso le sopranazionalità e dall’altro verso i regionalismi. Perché non è così, almeno nella coscienza politica dei ceti dirigenti europei. Mi si può dire che magari in parte sarà così nei processi reali, e che quindi queste coscienze politiche siano isolate, regressive o conservatrici. Non lo so, è da vedere, ma non mi sembra molto probabile.

Riccardo Terzi

Un diverso modello
Vorrei fare un’osservazione.
L’idea di un superamento radicale della dimensione nazionale, nel nome di un europeismo astratto e nel nome delle autonomie regionali, l’idea che si riassume nella formula dell’Europa delle regioni, non sta in piedi. In questo sono d’accordo con De Giovanni.
Però tutti i grandi stati europei il problema di una diversa articolazione tra potere centrale e poteri locali se lo stanno ponendo, anche perché c’è una spinta oggettiva che viene dal mondo dell’economia, il cui sviluppo è sempre più collegato ai sistemi territoriali.
La Spagna non è uno stato federale, ma sta andando molto velocemente su una linea di forte autonomia delle regioni. Perfino la Francia ha cominciato a misurarsi con l’articolazione regionale. Nonostante non abbiano assemblee regionali con compiti legislativi, il modello centralista puro anche in Francia non c’è più. Gli stessi laburisti inglesi stanno introducendo questo tema in un Paese che non ha mai avuto nella sua storia una dimensione regionale. In tutta Europa è in atto un processo di trasformazione delle strutture statali, più o meno profondo, e il punto di arrivo non sarà il superamento dell nazione, ma un cambiamento sostanziale delle sue forme di organizzazione e in qualche modo anche una trasformazione della stessa identità nazionale.

Un cambiamento indispensabile
Evitiamo le espressioni troppo immaginifiche: Europa delle regioni, superamento della dimensione nazionale. Che però lo Stato nazionale debba modificarsi in due direzioni, nel senso dell’autonomia territoriale e nel senso di un raccordo con l’Europa mi sembra indispensabile. E devo dire che registro con un certo allarme il fatto che la spinta europeista si è molto allentata, si è molto affievolita.

Biagio De Giovanni

L’Europa delle nazioni
Per tornare alla critica dello schema sopranazionalità – regioni, penso in realtà che l’Europa o la faranno gli stati o non la farà nessuno.
Questo è un punto chiave. Che mi fa essere quindi un po’ perplesso di fronte all’affermazione che la crisi dell’europeismo si evidenzia perché ritorna una funzione forte degli stati. Al contrario io sono dell’idea che se si spinge verso un decentramento radicale dei poteri, l’Europa perde dei colpi.
L’Europa è un fatto politico. Si può ancora immaginare che vogliono poter stare insieme la Francia, l’Inghilterra, la Germania, l’Italia, ma centinaia di regioni non avrebbero più nessuna ragione per stare insieme.

Federazione di Stati nazionali
Non a caso Delors, creando sconcerto e interesse, usò tempo fa l’espressione, nuova nel lessico europeo, “federazione di stati nazionali”. Un’espressione che prende atto del fatto che il federalismo classico, quello spinelliano, è scomparso dalla scena culturale e politica dell’Europa, con la buona pace di molti federalisti italiani che ancora non lo sanno.
Il tema federale, il tema Unione europea torna in campo in una forma diversa. E bisognerà dire in quale forma.
Ciò detto è evidente che anche la mia è una formuletta, perché il discorso è reso estremamente complicato dall’intrecciarsi di dimensioni economiche, finanziarie, monetarie, politiche, governative, parlamentari.
Insomma dal punto di vista istituzionale c’è più di un rischio di infilarsi in un labirinto immane.
Chiarite tutte queste cose, che però per me sono importanti, perché altrimenti vedo il rischio di accodarsi ad una formula che nella sua ambiguità può significare cento cose diverse, è fuor di dubbio che il problema sia di unità e distinzione, di decentramento di funzioni anche in forma completamente rinnovata rispetto al passato.

Un certo scetticismo
Ancora una volta, un certo scetticismo sulla parola, sul lessico, mi deriva dal fatto che normalmente il federalismo è stato un processo dal basso verso l’alto, insomma un processo in cui realtà differenziate hanno deciso di mettersi insieme. Questo mi sembra un dato che fa parte della cultura politica del federalismo.
Siccome noi qui abbiamo un’unità statale che dobbiamo perfino difendere, dobbiamo vedere bene come farlo, perché se non la difendiamo perdiamo quel collante di cui si è parlato.

Nord e Sud

Contemporaneamente non possiamo dimenticare, quando parliamo di federalismo, che in Italia esiste ancora il problema nord-sud, e dobbiamo stare attenti a che il federalismo italiano, se lo vogliamo chiamare così, o le forme di autonomia e di responsabilità che dovranno essere attribuite a città e regioni, debbano tenere conto, in maniera diversa da come se ne tiene conto altrove, del fatto che esiste questo problema.
La Lega, il vecchio meridionalismo, il problema dell’occupazione al Sud, tutto questo come incide? Pongo queste domande in maniera aperta per cercare, sulla base di precisi riferimenti storici, di capire di che cosa stiamo parlando quando parliamo di federalismo in Italia.

Il collante meridionalista
La cultura meridionalista ha tenuto insieme l’Italia e nel momento in cui essa muore c’è qualche cosa che viene meno nel collante che tiene assieme il Paese.
Bisogna capire, quando riflettiamo sul federalismo in Italia, in che misura mettiamo nel conto la possibilità di una scissione, o se invece, e in che maniera, l’accentuarsi di responsabilità autonome può contribuire a sviluppare i pluralismi.
Francamente, non credo che si possa risolvere tutto con la parola solidarietà, o con l’espressione federalismo solidale. Cosa significa concretamente? Come evitiamo gli enormi rischi di lacerazione sociale? Questi sono i due problemi che pongo. Nessun rifiuto pregiudiziale del discorso sulle autonomie dunque, anche perchè sul fatto che ci sia bisogno di una riorganizzazione dello Stato, ci sono ormai pochi dubbi.

Vincenzo Moretti

Ritorno al federalismo
Vorrei soffermarmi ancora sul federalismo.
Concordo molto sulla necessità di evitare di schierarsi per partito preso e mi convince, come ho detto prima, questo continuo richiamo di De Giovanni alla valutazione dei processi reali, delle forze reali in campo.
E’ vero. La Germania è una cosa e l’Italia un’altra. Però registro anche che tra i processi reali di questi anni ci sono la Lega e la nuova destra e che l’una e l’altra sembrano tutt’altro che fenomeni passeggeri o accidentali.
Terzi ha appena detto delle cose precise rispetto alle forze che si sono riconosciute prima nella Lega e poi in Forza Italia e sulle ragioni per le quali ciò è avvenuto.
Devo dire che a me sembra evidente che queste ultime affondano le proprie radici nella fase precedente.

Vista da vicino
Proviamo a guardarla un po’ più da vicino l’era della unità e della concordia nazionale, e a valutare quali effetti ha determinato sulle condizioni del Sud.
A parte una prima fase di intervento della cassa per il mezzogiorno, che ha prodotto alcuni risultati positivi, i tratti caratteristici di quel periodo sono stati da una parte la spesa pubblica dissennata, l’assistenza e il mancato sviluppo, dall’altra il sostegno allo sviluppo del Nord.
Vorrei insistere su quest’ultimo punto, indicativo di una tendenza che a me non sembra affatto episodica.

Cose già viste

Negli anni 60 la forza lavoro meridionale si dimostra indispensabile per lo sviluppo dell’industria di massa del Nord. Sono gli anni della emigrazione con la valigia di cartone, gli anni nei quali milioni di lavoratori meridionali inseguono il sogno di un futuro migliore, per sè stessi e per i propri figli, tra le fabbriche e le periferie di piccole e grandi città del Nord.
A metà degli anni 90, complici una fase ciclica di sviluppo e la scarsità di giovani nel centro Nord si ripropone, seppure in versione ridotta, riveduta e corretta, l’esigenza di portare i giovani meridionali dove c’è il lavoro, cioè al nord.

La forza delle cose
Si fa una certa fatica a vedere i vantaggi che il Sud ha avuto da questa lunga fase di concordia ed unità nazionale!
Contemporaneamente, nella società del nord, negli interessi politici ed economici che la animano e la muovono, vedo una insofferenza, ai limiti della rottura, che non mi sembra destinata a passare. Scusate la frase troppo perentoria, ma mi pare evidente che sono stati i commercianti ed i piccoli imprenditori del nord ad “inventare” la Lega e non viceversa. E, francamente, sulla sostanza delle loro rivendicazioni non mi paiono disposti a cedere tanto facilmente.

Un nuovo patto
D’altra parte anche il Sud credo che abbia oggi tutto l’interesse a proporre un nuovo patto con il Nord del Paese. Un patto capace di tenere assieme solidarietà ed interessi. Un patto fondato sulla promozione e lo sviluppo delle risorse umane e materiali a livello locale.
Imparare a ragionare, e a fare, come soggetti capaci di indicare soluzioni ai propri problemi, e capaci di costruirsele, mi pare una maniera utile per giungere ad un modello di relazioni tra diversi all’interno di una nazione. E per promuovere un nuovo protagonismo della società meridionale.
Credo perciò che l’esigenza di costruire un equilibrio tra i poteri in senso federalista sia nelle cose, nelle forze e negli orientamenti reali che attraversano la società italiana. A meno che non si pensi che il tutto sia in qualche modo un fenomeno transitorio.
Qual’è la vostra opinione?

Biagio De Giovanni

Il bisogno di autonomia
No. Non penso assolutamente che si tratti di una cosa transitoria. Il bisogno di autonomia è un problema vero, con il quale bisognerà fare i conti. Ribadisco anzi la mia idea che si tratta di un problema che richiede un intervento anche di tipo costituzionale, pure se, ne spiegherò più avanti le ragioni, non sono favorevole ad un’assemblea costituente.

Perchè nasce la Lega
Mi convinco peraltro sempre di più che la Lega intanto può nascere in quanto non c’è più lo stesso rapporto tra la produttività del Nord e il mercato del Sud. Non c’è più né nel senso del mercato della forza lavoro, né nel senso del mercato mercato, cioè del consumo, perché è del tutto evidente che il processo di unificazione europea dei mercati, e poi di globalizzazione dell’economia, ha spinte che riducono gli impatti e i vincoli localistici.

Il tema Nord-Sud
Insisto sul tema nord-sud aldilà, forse, del lecito, perché bene o male, in quella mediazione politica degli interessi di cui parlava Moretti, e che era il nostro stato sociale, c’era l’esigenza che il Nord e il Sud trovassero un certo tipo di rapporto, e di coesistenza.
Per dirla proprio alla grossa, serviva la forza lavoro del Sud al Nord, serviva il mercato del Sud per ciò che si produceva al Nord, serviva il ceto amministrativo del Sud per governare il Paese e così via. La connessione fra i due pezzi d’Italia che faticosamente si tengono insieme era dunque fondato su elementi molto forti.
La mediazione politica degli interessi che adesso in un certo senso è fortemente diminuita, e ha lasciato il posto a quegli istinti animali di cui parlavo, è messa in discussione esattamente dal fatto che tra nord-sud non c’è più questa funzionalità reciproca. Il Nord ha probabilmente oggi la possibilità di avere un rapporto con i mercati del centro Europa molto più forte che non con il mercato del sud.

Nessun automatismo
Non c’è più dunque nessun automatismo, e faremmo bene, quando ci poniamo dei problemi di riforme istituzionali, a non dimenticare questo aspetto sociale e politico. In altre parole credo che debba considerarsi possibile, nel quadro determinato di rapporti più difficili tra nord e sud, che una riforma di ingegneria istituzionale, apparentemente neutrale, diventi elemento di lacerazione al di là delle intenzioni dei costituenti, per il fatto stesso che la funzionalità del rapporto nord-sud non è più quello di prima, non c’è più il tipo di mediazione d’interessi prima dominante e che ha caratterizzato la forma dello stato sociale italiano, che non a caso veniva chiamato stato assistenziale, perché finiva per essere uno Stato in cui effettivamente il sud (ma si badi: non solo il Sud!) veniva in una certa misura “assistito”, cosa che oggi evidentemente non è più possibile in quei termini.

La formula del nuovo patto
Vorrei dire in ultimo che la formula del nuovo patto può anche andare bene, perchè può permettere effettivamente di superare, almeno nella sua formulazione, una divaricazione ideologica pregiudiziale su scelte che poi non si sa bene neanche quali sono.
Naturalmente è molto difficile rispondere a domande del tipo: un nuovo patto fra chi, e gestito da chi.

Un reciproco riconoscimento
Un nuovo patto in Italia si deve fare tra le forze reali che ci sono nel Paese, e quindi con questa nuova destra. Per essere valido, per non essere un patto di parte, deve essere un patto che nasca anzitutto da un reciproco riconoscimento delle forze in campo.
Se non c’è questo, tutta la logica del patto, che è schiettamente politica, e non istituzionale, salta.

Una prima risposta
L’esigenza del patto può essere probabilmente una prima risposta alla crisi, al tipo di crisi del sistema politico italiano. Ma l’esigenza di un patto presuppone l’esigenza di un reciproco riconoscimento, che mi sembra invece procedere con enormi difficoltà.
Avverto infine il problema di sistemare istituzionalmente la questione delle autonomie.
Proviamo a vedere che cosa sta avvenendo con l’esperienza dei sindaci, più nel Sud che al Nord.

I sindaci
I sindaci sono sicuramente una grande novità amministrativa, ma fanno anche altro: affermano di rappresentare un partito; si oppongono alla finanziaria; fanno la guerra alle giunte regionali. La complicatezza della questione italiana sta anche nel fatto che i sindaci, non solo sono, almeno da noi nel Mezzogiorno, una realtà nuova e significativa, ma sono pezzi di quella storia d’Italia che molto più che regionalista, è stata cittadina e comunale. E questo è un altro elemento che complica lo schema istituzionale, perché se in Germania ci sono i Lander, cioè le regioni, ai Lander qui non corrisponde niente, perché tutt’altra cosa sono le regioni amministrative previste dalla Costituzione. In Italia vige un sistema di autonomie infinitamente più complicato e frammentato.

Le città
Pensiamo veramente di poter andare incontro, nel nostro Paese, a un sistema di riforme di autonomie che prescinda dalle città, cioè da questa nuova realtà politica istituzionale che si sta affermando nel Mezzogiorno con una forza quasi dirompente?
Basterebbe qesto spunto per comprendere come la formula “federalismo” sia sempre più insufficiente. E attenzione a come ci si muove già nella discussione: nel quadro delle cose indicate, ci sono problemi dirompenti, e si può arrivare presto a una frattura regioni – città! Dunque, ordine nel dibattito e velocità responsabile nelle decisioni.
Guardiamo a questa forma un po’ angosciosa con la quale si sta delineando il problema Napoli. Il giorno in cui il sindaco se ne andrà, o mostrerà che non riesce a fare tutti i miracoli che la gente immagina che faccia, che cosa succederà nella democrazia napoletana?

Riccardo Terzi

La voglia di fare da soli
Sono totalmente d’accordo con l’osservazione che ha fatto prima Moretti: dietro la Lega c’è un movimento reale. Qualche elemento di declino indubbiamente c’è, ma la Lega non sta scomparendo, e soprattutto non scompare il problema.
Dietro il fenomeno Lega c’è una spinta pericolosa, ci sono pezzi di società del nord che rimuovono completamente il problema dell’unità nazionale, della solidarietà nord-sud e che pensano che il Nord possa fare da solo.
Questa posizione ha quei fondamenti che ricordava anche De Giovanni in relazione alla cultura e alla struttura economica del Paese.

Un tessuto di piccole imprese
C’è tutto un tessuto di piccole imprese del nord-est che non guarda al sud, ma al nord o all’est dell’Europa. E c’è il rischio reale che se a questi movimenti non riusciamo a dare una risposta politica che li contenga e ne colga quel tanto di razionale che c’è, possiamo avere, al di là del fenomeno Lega, processi che vanno nel senso di una disgregazione della coesione nazionale.

Una via che non porta da nessuna parte
Sia chiaro. Dietro queste posizioni c’è anche una buona dose d’illusione. Non credo ad esempio che la Lombardia possa andare in Europa da sola, anche perché, come diceva De Giovanni, l’Europa è il prodotto di un accordo tra gli stati nazionali. Se l’Italia scompare, se si compie un processo di disgregazione dello stato nazionale, nessuno conta niente, neanche i lombardi. Questa è una via che non porta da nessuna parte.
Io credo che per parlare di federalismo in Italia occorre tenere presente due specificità, entrambe ricordate molto bene da De Giovanni: lo squilibrio territoriale, che in altri paesi è molto meno marcato, ed il ruolo delle città.

Gli squilibri territoriali
Lo squilibrio nord-sud va affrontato e risolto. E devo dire che ho trovato in molti dibattiti a cui ho partecipato nelle regioni meridionali, nella CGIL o altrove, una disponibilità e un interesse a scommettere sull’autonomia come risorsa. Per fare questo, il sud ha bisogno di liberarsi di meccanismi di dipendenza e di assistenzialismo.
Accanto a questo, naturalmente, ci deve essere una perequazione nella distribuzione delle risorse, perché in Italia il federalismo non può essere basato sull’idea che ognuno si gestisce le risorse che produce a livello locale.

Biagio De Giovanni


Il deficit di risorse istituzionali

A me sembra che in un eventuale schema federalista questo sia un punto di forza.
Il problema che pongo è che c’è un deficit fortissimo di risorse istituzionali. E la mancanza di risorse istituzionali rappresenta per molti versi un dramma non meno grave della scarsità di risorse economiche.
In ogni caso su questo punto un federalismo serio, o comunque un decentramento serio, una seria riorganizzazione dello Stato secondo unità e distinzioni dovrà ricercare risposte forti.
Quali classi dirigenti, quale strutturazione della società, come si afferma il diritto? E’ questo il punto. A Napoli non a caso teniamo un sindaco – provvidenza. Perché non c’è niente, o ben poco, tra lui e il popolo.

Riccardo Terzi

Nord e federalismo
Anche al nord un’operazione federalista di decentramento regionale molto forte richiede delle strutture amministrative che oggi non ci sono. La stessa regione Lombardia ha una struttura amministrativa molto poco funzionale.
Su questo versante si tratta di riorganizzare la macchina dello Stato, ed è plausibile immaginare un processo di azione-reazione molto lungo e complesso.
Per quanto riguarda le risorse economiche, si possono trovare degli accordi, adottare dei modelli di perequazione. Ci sono già degli studi, diverse ipotesi sul tappeto. Occorre in sostanza ridefinire un patto di coesione nazionale basato su un equilibrio nuovo tra esigenze dell’unità e esigenze dell’autonomia.

Riformare lo Stato
In sostanza per dare una risposta politica alle spinte disgreganti che sono in atto abbiamo bisogno di un progetto di riforma dello Stato che definisca un nuovo assetto dei poteri.
Se stiamo fermi queste spinte separatiste diventeranno molto forti e rischiamo davvero di andare incontro a una lacerazione.

Il tema città
C’è poi il tema delle città, che è un tema importante per l’Italia, dove la dimensione regionale non è mai stata una dimensione forte.
Non c’è coscienza regionale. C’è coscienza nazionale e coscienza municipale. Ciò nonostante, una operazione di spostamento sostanziale di poteri dallo stato centrale alle realtà territoriali non può essere fatto che a livello regionale.
Non ha senso parlare di federalismo delle città.
Il protagonismo dei sindaci ha avuto una funzione importante. Essi sono un elemento nuovo, un embrione di nuova classe dirigente che ha anche una legittimazione popolare, e questo è molto importante.

Il ruolo delle Regioni
Ma è sbagliato pensare che l’asse su cui costruire una riforma in senso federalista siano la città, perché a quel livello può esserci soltanto un po’ più di decentramento, non un diverso meccanismo istituzionale. Una riforma vera dello stato non può che essere messa in campo in una dimensione ampia: le regioni, o anche qualche cosa di più ampio delle attuali regioni, così come è previsto nel progetto della fondazione Agnelli che si basa su 12 macroregioni.
Se il decentramento deve essere vero, nel senso che vogliamo dare vita a governi politici sul territorio, la dimensione non può che essere quella regionale. Nell’ambito delle regioni va poi rivisto il rapporto regioni-enti locali, così da non riprodurre una struttura burocratica centralizzata.

Una nuova alleanza
La regione deve essere un elemento di grande regolazione, sviluppando un intenso rapporto di collaborazione con gli enti locali. Se invece si protrae una situazione di conflitto tra comuni e regioni, ciascuno in difesa della propria bottega, si rischia di lasciare il gioco nelle mani del potere centrale, che sfrutta queste divisioni in una logica di conservazione. E’ necessario invece lavorare per una nuova alleanza del sistema delle autonomie e trovare forme nuove di collaborazione tra le regioni e gli enti locali.
La regione Emilia Romagna ha ad esempio proposto di istituire, analogamente ad un sistema bicamerale riformato con l’istituzione della camera delle regioni, un consiglio delle autonomie locali, in modo che queste ultime possano avere una ruolo politico sulle grandi scelte di programmazione regionale.
Se invece dovesse prevale una logica per la quale i sindaci difendono se stessi, le province provano a difendere quel poco di prestigio che è rimasto loro, le regioni si contrappongono alle autonomie locali, il risultato non potrebbe che essere la paralisi.

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